Antonio Zoretti

Accolta con entusiasmo l’arte di Carlo Michele Schirinzi  al Fondo Verri (mercoledì 20 agosto), compresa la sua video-performance “Eclissi senza cielo”, sonorizzata dal vivo da Stefano Urkuma De Santis. L’appuntamento intitolato “Occh’immerso” (organizzato dall’Associazione “Fiori di Fuoco”) è stato coronato dai suoi lavori cinematografici  premiati in varie sedi.

Non salva nessuno del cinema contemporaneo Carlo Michele Schirinzi, tranne Ciprì e Maresco che, come diceva Carmelo Bene <<sono l’unica eccezione del Novecento, degradazione della materia, immagini che non sono immagini, il suono che non è sonoro, ecc.>>. Schirinzi rimuove anche Serena Dandini che poco o niente ha percepito degli autori siciliani de “Lo zio di Brooklin”; critica Sabrina Guzzanti per la sua inopinabile verità trasmessa ne “Draquila-L’Italia che trema”, non lasciando margini di riflessione allo spettatore che viene invece usato come un contenitore da riempire.

Schirinzi si dichiara fuori dalla Storia, che non lo contempla, e sperimenta un linguaggio cinematografico fuori-quadro, per così dire. E c’è n’è voluto di tempo al cinema per mettere in quadro l’arte… Ma egli supera l’indugi, rompe gli schemi, va oltre la tecnica… ma bisogna averla la tecnica, appunto, per superarla. Schirinzi richiama poco alla volta opere del passato: Ridolini del cinema muto per esempio; o Cervantes con il Don Chisciotte fuori dal tempo, appunto; o Beckett col suo ‘teatro dell’assurdo’ e i suoi tragici personaggi immersi in un mondo devastato, isolati in uno spazio immaginario senza tempo; fino a Pier Paolo Pasolini che solo nel passato trovava il suo tempo, com’egli stesso dirà: <<Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini, sulle Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti del Dopo-storia, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età  sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più.>>

(Io sono una forza del passato – P.P.P.)

E come Pasolini, Schirinzi incita l’uomo medio conformista, qualunquista e  indifferente ad elevarsi da quel pericoloso e mostruoso stato. In modo che si superi la politica capitalistica, poiché – concludeva Pasolini: << […] Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone dei giornali dove rilascio le mie interviste[…] Addio.>>

Schirinzi resta fuori dunque dai compromessi dettati dalle industrie cinematografiche; egli non sfiora neanche le grandi sale cinematografiche, dove sfilano prodotti da consumo infiocchettati con star-system incorporato, scene e suppellettili premontati e variopinti. Schirinzi sperimenta, com’egli stesso ama dire, fuori dalle cordate industriali, dalle logiche commerciali a buon mercato, dove si rifugia il consumo dell’arte… dove tutto è detto, risaputo e ripetuto, dove a fior d’incenso ci consolano e ci decorano. Da qui nasce il rifiuto. Il rifiuto d’esser nell’arte.

L’autore de “I resti di Bisanzio” (ultimo lavoro cinematografico di Carlo Michele Schirinzi) segue  una traccia, un’impronta nel suo percorso artistico, dove troverà  l’imprevisto che darà spazio a molteplici interpretazioni che man mano il caso gli offrirà. La libertà di scelta farà da cornice nella realizzazione dell’opera.

Il suo è un modo diverso di intendere il cinema, già praticato in passato, fuori da stereotipi, convenzioni e luoghi comuni. Rischiando anche i fischi, come avvenne a Carmelo Bene quando presentò “Nostra Signora dei Turchi” al cinema Gioiello di Torino: la reazione del pubblico all’uscita del cinema fu allarmante, al punto che Carmelo Bene disse loro: <<… se volete uscire io vi restituisco i soldi del biglietto>>. Poco dopo furono incendiate alcune poltrone della sala. Ecco, all’epoca “Nostra Signora dei Turchi” fu un operazione eversiva. Forse oggi i tempi sono diversi, forse…

Carlo Michele Schirinzi annullerebbe persino il biglietto d’ingresso, quanto meno uno è libero di alzarsi e andarsene quando vuole senza pretendere diritti che non ha.

Senza mediatori, preveggenti, esaminatori. Liberi e lontani dalla miseria della condizione umana, che ci incatena fin dalle origini, mantenendosi sempre nell’ordine delle cose e mai in quella di un Evento.

Tanto basti, dunque, a riflettere sull’operato di Schirinzi, distico dall’inezia che infesta le folle, prostrate dall’indigenza manifesta. Bensì martire (dall’etimo: testimone) di un lampo artistico sovrano che ci penetri e invada profondamente, attraverso una ‘realtà soggettiva’, com’egli dice citando Francis Bacon a cui è  devoto.  Infatti, Francis Bacon ha sempre sostenuto di aver voluto testimoniare con la pittura la realtà. E Bacon dirà: <<La pittura, ormai libera e senza più obblighi di fare reportage, non è più portatrice d’un messaggio, ma ha il compito di tradurre le sensazioni nel modo più persuasivo possibile. All’arte dunque non rimane altro che essere un gioco. Si badi bene però: in questo caso il gioco non consiste tanto nell’inventare nuovi segni, ma è circoscritto a una sfida tra l’artista e ciò che egli intende rappresentare. L’importante è che lo spettatore abbia la possibilità di credere nella figura che gli viene proposta. E questo può farlo solo se essa reca “l’impronta vivente della mano dell’artista”>>. Cosciente che alla fine qualsiasi rappresentazione della realtà, se non passa attraverso i sentimenti, non è altro che una finzione.

Schirinzi, infatti, gioca con l’immagine, la frammenta, la distorce, l’accenna, la sfoca o la impressiona, la circoscrive ecc.; quanto basti infine ad imprimere allo spettatore quella arcaica sensazione, pura percezione, priva di volontà come di voglie, fuori dalla portata della comprensione, immergendosi negli occhi in totale abbandono.

E in alto sale l’impeto immaginario dell’artista, come un vento che spazza la visione, ma ne crea avvicendamento. Vicino al mare, vicino alla sua terra, nei paesi arroventati  fulgida appare la sua arte; bianca e rossa e lieve e fremente si diparte.

Bene. Noi siamo stati spettatori, e il suono delle immagini senza parole che ci è giunto è stato dall’artista tramandato come un eco. L’eco della sua voce. Grazie.

 

Antonio Zoretti                

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