di Domenico Maurizio Toraldo –

Il tempo del coronavirus nel quale ci siamo improvvisamente trovati ci sta cambiando per sempre. “Nulla sarà più come prima” recita un comune slogan di questi giorni. La mia cronaca dal campo di battaglia contro il Coronavirus parte dall’ospedale di San Cesario di Lecce, nel Salento, da un reparto della “Riabilitazione Generale e dei disturbi respiratori durante il sonno”, che da presidio di riferimento è divenuto, in pochi minuti, ospedale per pazienti post-Covid 19.

Il mio ricordo inizia da una tarda mattinata di inizio marzo quando, per volere della Direzione Generale della ASL, il Dr. Franco Satriano viene a parlarci chiedendo la collaborazione per un progetto di lavoro assistenziale tutto da inventare per i pazienti COVID 19 che stavano arrivando a fiotti nelle due divisioni di malattie infettive di Galatina e Lecce dove non avevano più posti per accoglierli.
Riunita l’equipe infermieristica e la caposala e gli altri colleghi volontari abbiamo cominciato a disegnare un nuovo reparto. Il Dr. Satriano ha con sé una lista di colleghi e colleghe pneumologhe ed interniste che si sono rese disponibili a collaborare. In poche ore nasce il nuovo reparto. Le difficoltà sono tante ma c’è la voglia di collaborare, si evitano punti di vista e polemiche individuali. Cominciano ad arrivare i pazienti da Lecce e da Galatina ma i Dispositivi di protezione individuale (DPI) sono pochissimi, contati, spariscono subito. Gli infermieri sono in rivolta non si sentono protetti adeguatamente dalla paura del contagio. Facciamo ripetute richiesta alla Farmacia per i DPI con risposte alterne.

Terminato il mio turno di guardia, liberato il viso da una mascherina opprimente che mi impedisce di vedere bene e respirare, mi siedo nella stanza antistante il reparto, con una stanchezza infinita, cerco di liberare il corpo dalla tuta monouso plastificata, mi lavo e disinfetto le mani con sapone liquido e liberatomi dai doppi guanti di plastica, mi fermo qualche minuto allo specchio del bagno in uscita per guardarmi e ripensare ai volti dei pazienti che ho incontrato durante il giro visita.
Durante la visita con il fonendoscopio inserito in un solo orecchio, ho dovuto auscultare i polmoni, visionare il foglio degli appunti clinici e laboratoristici dei pazienti trascritti al computer perché è stato impossibile consultare le cartelle cliniche dei pazienti con gli esami, per il pericolo del contagio, erano rimaste fuori dal reparto.

Una volta guadagnata l’uscita mi fermo nella nostra sala di lavoro nel corridoio del 2° piano per aggiornare i colleghi sullo stato di salute dei nostri 18 pazienti ricoverati. Lascio le consegne sui risultati clinici ottenuti dei pazienti visitati. Una volta usciti dal reparto bisogna aggiornare le cartelle cliniche, trascrivere i parametri vitali, i dati obiettivi e le modifiche alle terapie effettuate. Discutiamo, con i colleghi, sui dati bio-umorali e sui dati clinici riscontrati. Notiamo che gli indici di infiammazione sono impazziti con risultati dissociati fra loro. Un rompicapo inedito!

I pazienti sono stanchi e nervosi, sono ricoverati da più di un mese e provengono da altri reparti (da Galatina, Lecce, DEA) e non vedono soluzioni immediate. Quando parliamo con loro dobbiamo farci riconoscere (sulle nostre tute non c’è il nome del medico), si parla a fatica con una voce filtrata dalla maschera FFP3, un sottile suono gracchiante, metallico! A volte ti riconoscono dalla voce. Non riesco a comunicare con loro, non si può trasmettere empatia e coinvolgimento emotivo nella situazione clinica. I nostri colloqui sono freddi, distaccati, fatti di una voce altisonante. Penso alla loro situazione, mi preoccupa l’isolamento e la solitudine alla quale sono costretti per tutto il giorno. Dal momento del ricovero non possono incontrare più nessuno, ma parlano sempre al telefono! Vedo nei loro occhi tanta speranza nella guarigione.

«Non ci facciamo illusioni, siamo in pochi, solo sei, non penso verrà nessuno a darci una mano e su questi sei dobbiamo contare» – dice il nostro Franco Satriano, coordinatore del Team COVID 19 per la ASL di Lecce – «perché di pneumologi e rianimatori, ce ne sono pochi e sappiamo che la nostra ASL non riuscirà ad assumerne altri per il semplice motivo che non ce ne sono e non si può farne una colpa!».
E prosegue Fausto Meleleo polemico: «Il personale sanitario però va difeso perché non si infetti e non contagi a sua volta, la scarsità di Dispositivi di protezione individuale (DPI) e la decisione iniziale della Direzione Generale di non sottoporre a test tampone medici ed infermieri, se non con sintomi evidenti, sono argomento di denuncia». Tuona nella sala medici anche la dottoressa Anna Manieri e la dottoressa Antonia Giannuzzi, tutte due preoccupate ed inquiete: «Questa decisione incomprensibile potrebbe mettere a repentaglio la nostra salute e delle nostre famiglie!».

Intanto, il buio della sera, a fine turno, rende la vita sospesa dentro le grandi porte del reparto. L’auto-isolamento ci rende diffidenti tra di noi, ci distanziamo fisicamente in modo quasi antipatico ma poi dobbiamo condividere le idee sui vari casi clinici. Ci allontaniamo ma poi ci riuniamo per discutere; un atteggiamento improduttivo sul piano operativo. Il tempo passa lentamente, è impalpabile, la stanchezza infinita ti fa desiderare il divano di casa davanti alla TV in diretta che racconta il dramma italiano a tutto il mondo! Ti sembra di vivere un dramma inaspettato, impensabile fino a qualche giorno prima. Ti senti protagonista di un film che non hai mai visto ma che comunque non ti eri mai immaginato.

I malati Covid che visitiamo sono persone giovani che hanno un coinvolgimento emotivo molto forte su tutti noi; ci sembrano aggressivi ed invadenti, ci fanno molte domande sul decorso clinico della loro malattia e sui risultati degli esami e dei vari tamponi. Sono informatissimi sugli aspetti normativi e volte sembrano quasi rimproverarci con le loro osservazioni quando ci raccontano le loro disavventure sanitarie passate qualche giorno prima del ricovero al Pronto Soccorso o con il medico di famiglia. Non mi vedono in faccia perché sono chiuso nella mia tuta plastificata irrespirabile e con una maschera gigante che mi nasconde il viso. Mi chiedono il nome e la qualifica. E pensare che erano persone sane fino a circa dieci giorni prima! Mi rendo conto che faccio fatica ad essere empatico e gentile durante la visita a colloquiare con loro, non sono come i miei pazienti con bronchite cronica o apnea che ti stimano e ti rispettano e ti riconoscono, ma addirittura quasi mi devo difendere da insistenze verbali e richieste varie. Imparo a distanziarmi dai loro discorsi altrimenti non ce la fai a sopravvivere. Sono ossessivi. Durante il giro visita, il lavoro è reso ancora più massacrante dalla vestizione plastificata che ci appesantisce nei movimenti e nei respiri che ci costringe a camminare al rallenty; inoltre si appannano gli occhiali e non vedi più bene e rischi di cadere a causa di rattoppi di materiale di protezione aggiuntivo e di copertura che ci agganciamo sui calzari per coprire varchi non protetti delle scarpe; la paura di infettarsi è altissima e ci costringe a riflettere su tutti i movimenti che facciamo. «Nessuno di noi all’inizio immaginava una situazione del genere» ammette la dottoressa Sandra Sozzo, «camminiamo per tutto l’orario del turno di guardia e non ci sediamo mai! Non ci possiamo permetterci di togliere la mascherina FFP3 e non possiamo fare la pipì o grattarci l’orecchio o il naso. Una volta entrata in reparto rimani intrappolata nel sudore e nel caldo» aggiunge «tornata a casa mi comporto come se fossi positiva, mi faccio una doccia bollente per eliminare ogni residuo infettivo. Ho paura per la mia famiglia e per mio padre che non sta bene!». Commenta con le colleghe e gli infermieri a fine turno di guardia. I casi clinici in reparto non sono gravi, i pazienti non sono in pericolo di vita ma la malattia si manifesta in modo completamente nuovo con indici di infiammazione diversi da monitorizzare (cosiddetta “tempesta infiammatoria o citochimica”) nel tempo.
I rischi sono le coagulopatie vascolari polmonari che possono sempre arrivare in modo imprevisto. Tutti i pazienti cominciamo la profilassi con enoxaparina sc secondo peso per paura di fenomeni trombotici. Mi soffermo a pensare a questa esperienza di lockdown e di solitudine sociale. Vivo con la mia famiglia in appartamento; ho imparato a percepire la responsabilità di ogni mio pensiero e di ogni mia azione di fronte agli altri, il peso è più grande, allarghi le preoccupazioni, rifletti sui bisogni di ogni persona che incontri.

Ti senti solo con una nuova responsabilità sociale e sanitaria. Importante è elaborare paure ed incertezze e trasmettere agli altri la tua vicinanza e compartecipazione al dolore. Il turno di guardia pomeridiano è quasi terminato, mi preparo a rientrare a casa, prendo la mia auto nel parcheggio dell’ospedale, ma mi accorgo mentre ho acceso il motore che non ho con me l’autocertificazione per il viaggio di ritorno a casa. Non ho voglia di tornare indietro e risalire al 2 piano del reparto per riprendere il foglio, ma alla fine penso che se mi fermano i carabinieri dirò che sono un medico del Centro Covid, spero abbiano un po’ di pietà e mi lascino andare senza farmi la multa di 400 euro ed una denuncia penale. Se è vero che noi medici del COVID siamo considerati dall’opinione pubblica, i nuovi eroi, come dicono le pubblicità RAI! Sicuramente “andrà tutto bene”!

Domenico Maurizio Toraldo – giovedì 14 maggio 2020