di Marcello Buttazzo – Da giovani, abbiamo spasmodicamente inseguito chimere dalle ali rosee, sogni, speranze, utopie. Da giovani ritenevamo romanticamente che le pregnanti questioni sentimentali e affettive fossero le uniche mansioni antropologiche degne di attenzione, di rilevanza. Col trascorrere del tempo abbiamo dovuto aggiustarci, rimodularci. Abbiamo capito che altri aspetti più prosaici, come quello economico, possono marcare il tempo, prescegliere gli eventi, determinare massicciamente i destini dell’umano sentire. Quante volte ci siamo sentiti “fatti fuori”? Quante volte ci siamo sentiti cittadini estranei di questo mondo supersviluppato, ipertecnologizzato, di questo villaggio globale improntato alla massimizzazione del profitto, al culto estremo della padrona economia? Quante volte ci siamo sentiti espulsi o, comunque, messi ai margini al cospetto di dominanti meccanismi iperefficientistici. Per evidenti colpe dei governi di centrodestra, tecnici, di centrosinistra, che si sono succeduti, il nostro Paese, da un punto di vista lavorativo, naviga in un turbolento mare di incertezze. La inoccupazione e la disoccupazione e l’assoluta precarietà avanzano sempre più, raggiungono picchi preoccupanti. La situazione è critica. Tanti cittadini sono in sofferenza. Epperò, proprio nell’emergenza non ci si può arrendere e ammainare le bandiere di attesa. Dovremmo guardare oltre gli stretti e angusti giardini. È l’ora, forse, di reagire collettivamente e civilmente, tornando a difendere la nostra dignità, a proteggere ciò che appartiene ad ognuno di noi. Esiste un intatto anelito alla libertà da parte di movimenti plurali, di uomini e donne valorosi, che intendono più d’ogni cosa valorizzare l’inestimabile patrimonio e giacimento dei cosiddetti beni comuni. Tante volta la dizione “bene comune” è un assunto posticcio della politica per “farsi bella”. Ma l’acqua pubblica, l’adattamento culturale, l’accesso ad Internet, le ricchezze energetiche, ecologiche e paesaggistiche, il gusto insopprimibile e consapevole della libertà, dovrebbero essere risorse ad appannaggio di tutti, nessuno escluso, patrimonio di tutta la collettività. Il “bene comune” è carne viva, vibratile, da mangiare tutti assieme, da dividere con mani compagne, in una mensa imbandita di solidarietà, di lealtà, di comprensione. Il “bene comune” non è di certo quello che ci ammannisce una deteriore e speculativa vulgata. Insomma, non è quell’esercizio retorico ostentato come puro belletto da tanti politici, che sanno annaspare fragorosamente nei frequentatissimi salotti televisivi di prima e seconda serata. Il “bene comune” da condividere è un potente antidoto contro il virus dell’individualismo sfrenato.

Marcello Buttazzo