di Paolo Vincenti –

Recensivo qualche tempo fa il volume di Massimo De Gennaro, La danza degli ulivi Dance of the olive trees, (Milano, Silvana Editoriale, 2015) e pensavo ai nostri ulivi ricurvi, intrecciati in un abbraccio spasmodico di vita, avvinghiati alla terra con le loro radici eppure anelanti al cielo, fermi immobili nel perenne scorrere delle cose eppure in continua mutazione, sempre uguali a se stessi pure rinnovandosi e trasformandosi nell’alternarsi delle stagioni. Questo almeno erano gli ulivi, i patriarchi verdi della nostra Puglia, ideali sentinelle del tempo che passa, prima che un flagello dalle proporzioni bibliche intervenisse a falcidiarli, portandoli ad un lento ed inesorabile declino. Questo morbo è la xylella fastidiosa (nomenomen, purtroppo), che isterilisce i giganti della nostra terra, li priva della loro linfa vitale e li condanna senza appello.

Assistere desolati alla moria degli ulivi, quando nemmeno le condizioni di maggiore siccità di questa “Apulia sitibonda”, come la definì Orazio, ci sono riuscite, è una esperienza straziante.
Il paesaggio salentino sta velocemente mutando, e capita, percorrendo strade e stradine lambite dalla campagna (tutte, o quasi, nel Salento), di vedere con raccapriccio enormi zone brulle là dove verdeggiava vigoroso e intricato il fitto fogliame, simili ad un buco nel paesaggio, come una malvoluta tabula rasa in uno scenario da paese sud asiatico spaventosamente attraversato da uno tsunami. L’ulivo, cantato dai poeti, simbolo di pace e vittoria nell’araldica, “Hoc pinguem et placitam paci nutritorolivam“, “nutriti di questa oliva pingue e alla pace gradita”, scrive Virgilio (Georgiche, Libro II, vv. 420-425), è forse la pianta più famosa nella storia dell’umanità, da quel primo ulivo fatto spuntare dalla Dea Athena sul suolo greco, nella mitologica disputa con il dio Nettuno, al ramoscello di olivo portato in bocca dalla colomba partita dalla biblica Arca di Noè, dopo il diluvio universale, fino agli ulivi dell’orto del Getsemani, il luogo dell’agonia e dell’arresto di Gesù Cristo.
L’ulivo, presente all’alba del mondo, già preso i babilonesi, gli egizi, gli ebrei, i fenici, gli etruschi, era conosciuto a Cnosso, nell’isola di Creta, quindi caro a quella civiltà minoica che molti studiosi hanno ritenuto antesignana della più tarda civiltà greca, e già presente negli ideogrammi della scrittura micenea nel 1400 a.C..

Questa pianta sempreverde viene cantata nella poesia classica a partire da Omero che, nell’Iliade scrive: “Qual d’olivo gentil pianta, nutrita in lieto d’acque solitario loco, bella sorte e frondosa: il molle fiato l’accarezza dell’aure, e, mentre tutta del suo candido fiore si riveste, un improvviso turbine la schianta dall’ime barbe e la distende a terra” (Omero, Iliade, Libro XVII). È facile, mentre si assiste impotenti ad una simile agonia, pensare con scoramento a tutto questo e anche alle tante raffigurazioni pittoriche e scultoree dell’ulivo della storia dell’arte. Quell’ulivo di cui Sofocle diceva: “una pianta che su terra d’Asia non so, né che di Pelope germini sulla vasta isola dorica”, alludendo al fatto che l’ulivo non fosse nato in Asia minore, men che meno nel Peloponneso, ma che esso, secondo la leggenda, fosse stato fatto spuntare dal suolo dalla dea Athena riconoscente alla nazione attica; e ancora: “indomita, spontanea, venerato terrore delle lance desolatrici, fiorente rigoglio di queste zolle: il glauco paterno ulivo. E mai né antica né giovane mano di nemico invasore lo stroncherà facendone sterminio, poiché lo veglia eterna la pupilla mai chiusa di Giove Morio, e, glauco, l’occhio di Atena”. (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 690-704).

Non fu verace profeta Sofocle, perché né Giove, invocato come protettore degli ulivi, dal greco morìai, né la Pallade Athena “occhiazzurrina”, sanno purtroppo oggi difendere i giganti verdi trascoloranti in un bircio marroncino e il terrore alle lance nemiche che essi dovevano incutere (in quanto intesi come alberi della pace) è quello dei Caterpillar che li abbattono. Ma poscia che (come direbbero gli antichi) la terribile pestilenza delle piante, l’invisa xylella, precorritrice di quella, ancor più temuta, degli umani, ovvero il covid 19, si è abbattuta sugli ulivi, condannandoli ad una fine senza gloria, ad accelerare la loro tabula rasa è intervenuto lo stato di bisogno dei contadini, misto alla miserabile ma pur sempre umana brama di lucro, dacché è stato predisposto prima, dal cosiddetto “Piano Silletti”, con i fondi della Comunità Europea, un contributo di circa 140 euro per ogni albero abbattuto, e poi, più recentemente, la concessione di contributi per un totale di circa 40 milioni, per il loro reimpianto nelle zone infette. Precisamente, si tratta di una delibera, approvata «il 31 luglio 2020, con la quale la Regione Puglia attiva l’intervento finalizzato al “Reimpianto olivi in zona infetta” come previsto dal “Piano straordinario per la rigenerazione olivicola della Puglia” per gli anni 2020 e 2021. Il provvedimento regionale approva i criteri e le modalità di concessione dei contributi previsti dal decreto interministeriale 2484/2020»*

Ora, il finanziamento sarebbe in sé un ottimo provvedimento come indennizzo per gli agricoltori danneggiati se non fosse che, “fatta la legge trovato l’inganno”, apprendiamo di tanti proprietari terrieri che dichiarano un numero più alto di piante abbattute, prelevando le carcasse di ulivi da altri terreni di proprietà o appartenenti ad altri colleghi, in un esecrando patto di solidarietà del fotti fotti, e posizionandoli nel proprio terreno al momento delle ispezioni della guardia forestale, così da aumentare il premio ristorativo. Da archetipi di longevità, simboli di ininterrotta armonia fra uomo e natura, oggi diventano pretesto per strappare un po’ di denari illeciti. Che fine doppiamente miserabile.

PAOLO VINCENTI

*Fonte: Regione Puglia
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