di Maira Marzioni –

La Xylella raccontata dai registi Davide Barletti e Lorenzo Conte

Qualcosa è cambiato nella narrazione del Salento. Davanti alle catastrofi ci si può nascondere sotto la sabbia o affrontare di petto la realtà, aprirla per cercare di comprenderla, analizzarla e fare autocritica, se serve. Mentre il primo approccio ricaccia i problemi indietro, il secondo permette di guardare avanti, di pensare il futuro. Con questa lucidità i registi Davide Barletti e Lorenzo Conte hanno affrontato la catastrofe Xylella nel documentario “Il tempo dei giganti”, liberamente tratto dal libro del giornalista Stefano Martella, che ha aperto l’ultima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce.

Non stupisce che alla fine della proiezione registi e sceneggiatori abbiano ammesso un certo timore nel presentare il film. Perché davanti a un’emergenza fitosanitaria, causata da un batterio da quarantena, si sono consumati conflitti, divisioni ideologiche, barricate, rabbie; reazioni emotive caratteristiche di un lutto collettivo comprensibile, ma mal gestito, lasciato incontrollato, fino alla negazione del problema. 
L’importanza di questo documentario sta nell’aver ascoltato le diverse posizioni e compiuto scelte di contenuto, rispettando lo scopo civile del cinema del reale. Finalmente il carattere scientifico dell’emergenza è chiaro, ci sono le interviste a chi ha studiato e studia ancora il batterio e vengono portate a galla le falle di un pensiero, molto diffuso tra intellettuali, associazioni, fette di cittadinanza, che ha preferito identificare nemici esterni, “poteri forti”, invece di assumersi l’onere di capire il problema e accettare le soluzioni più ragionevoli.
Troppo spesso il racconto sul Salento ci ha abituato a edulcorazioni e estetizzazioni del paesaggio e dello stato del territorio, in nome di una culturale, umana, tendenza al pensiero magico che non riesce a convivere, come dovrebbe, con il ragionamento, l’analisi, i dati, i numeri. “Il tempo dei giganti” cerca di evitare questo grosso rischio: quello che il senso di bellezza perduta tolga spessore alla realtà.

Il documentario coglie perfettamente l’esemplarità di Xylella e di quello che ha scatenato e decide di prendere per mano lo spettatore, comprenderne il dolore, ma allo stesso tempo condurlo fuori, alla luce. La conoscenza è il vero antidoto alla paura, all’impotenza, al senso di ineluttabile, sembra dirci il film.
Giustamente i registi e i produttori si augurano che il film venga visto anche fuori dai nostri confini, perché quello che è successo può succedere ancora, qui o in altri luoghi, e osservare le dinamiche sociali e culturali di fenomeni di questo tipo, può aiutare a non compiere gli stessi errori.
Ma alla fine del film la sensazione è che debbano essere i salentini per primi a vederlo, con due scopi fondamentali: uno catartico e l’altro di autoconsapevolezza.

Il documentario di Barletti e Conte ha compiuto un passo importante verso una narrazione laica del territorio, di cui si sentiva profondamente la mancanza. Speriamo possa essere l’inizio di un cambiamento generalizzato nel modo di guardare e raccontare il Salento.