di Marcello Buttazzo –

Che la pena di morte sia una pratica disumana e medievale, un ferrovecchio della storia, è pensiero condiviso da tutti gli uomini e le donne di buon senso. Che la massima pena, nonostante le moratorie in questi anni nelle sedi Onu, continui a fare strame dell’umano (non solo in Stati dittatoriali e autocratici, ma anche in Paesi democratici), è veramente avvilente. La pena capitale, nonostante l’impegno di tante associazioni abolizionistiche, continua a rimane in vigore e a sacrificare sul patibolo del boia tante vite umane. Ora l’invereconda pena sta facendo un salto di “qualità”, relativamente alle sue brutali metodiche. In Alabama, Kenneth Eugene Smith, condannato per omicidio nel lontano 1988, è stato giustiziato con un metodo “rivoluzionario” e ferino. Soffocato mediante una mascherina sul naso collegata ad un erogatore di azoto, con l’obiettivo manifesto di privare il corpo di ossigeno. Un metodo considerato eticamente inaccettabile perfino negli animali. Ma Kenneth aveva avuto la fortuna o la sfortuna di sopravvivere nel 2022 all’iniezione letale. I giornalisti che hanno assistito all’esecuzione per asfissia con azoto sostengono che l’uomo dopo 22 minuti di agonia s’è spento: “Si è dimenato e contorto, boccheggiava, la barella ha tremato più volte”. Noi cittadini non possiamo fare altro che assistere con impotenza alla bestialità della pena capitale e, al contempo, possiamo fare una piccolissima considerazione. Kenneth Eugene Smith era nel braccio della morte da 35 anni per aver ucciso una donna, Elizabeth Sennet, nel 1988. È mai possibile che l’uomo, dopo tanti anni, abbia dovuto espiare il suo delitto solo tramite l’uccisione e la vendetta di Stato?

Marcello Buttazzo