Ma che Banca!
di Paolo Vincenti –
“Finché la vecchia dà lasciala dare, finché la vecchia dà fatti pagare,
finché la vecchia dà falla firmare, se fallirà la banca tutti i soldi perderà,
ma è scritto piccolino quindi non lo leggerà…
Finché la banca c’ha il vicedirettore, che della Boschi è il papa,
acquista valore, quello che lei dirà in queste ore,
tanto gli italiani so’ una manica di fessi,
viviamo nel paese del conflitto di interessi…”
(Finche la banca c’ha – Dado)
Il fallimento dello scorso anno di Banca Etruria e delle altre banche di credito cooperativo ha drammaticamente evidenziato come il sistema bancario italiano sia non già fragile, come ha voluto sostenere qualcuno, troppo furbescamente o troppo ingenuamente, ma diabolico, perverso, subdolo, tentacolare, mafioso. Ed ha inoltre evidenziato la family connection del Governo in carica, con babbo Boschi e babbo Renzi a diverso titolo coinvolti nel crac di Banca Etruria. Ma di intrecci fra interesse pubblico e privato, ovvero di casi più o meno eclatanti di gestione familistica della politica, è piena la storia della repubblica italiana. Purtroppo, al 30 marzo, termine previsto dalla Legge di Stabilità, il cosiddetto decreto Salvabanche non è stato approvato e con esso la possibilità di essere risarciti per i tanti creditori delle banche fallite (Banca Etruria, Cariferrara, Carichieti e Banca Marche ). Lo stesso Cantone, autorità nazionale Anticorruzione, afferma che dal punto di vista tecnico è stato tutto predisposto ma evidentemente manca la volontà politica di andare avanti. Molto probabilmente si dovrà ricorrere all’azione giudiziaria contro le banche che hanno fatto i propri comodi e le autorità di vigilanza che dovevano controllare, in primis la Banca d’Italia e la Consob; e ancora una volta, sarà la magistratura a supplire alle mancanze della politica. Pure in estremo ritardo, l’attuazione dei decreti sull’abolizione dell’anatocismo (cioè il calcolo degli interessi sugli interessi con cui la banca ha sempre operato un vero strozzinaggio) e quelli sull’imposta di registro per i privati che acquistano dalle aste giudiziarie e sulla proroga di due giorni dello sconto del 30 % per il pagamento delle multe tramite home banking. Queste ultime due norme in realtà costituiscono un beneficio per le banche stesse e sorprende che il governo non sia stato più celere nella loro approvazione. Infatti, l’agevolazione sull’imposta di registro nelle vendite giudiziarie (solo 200 euro, senza l’obbligo di rivendere l’immobile entro due anni) serve a movimentare il mercato delle aste. Ma questo mercato è sostanzialmente in mano agli istituti di credito che hanno sul groppone tantissimi immobili che provengono dalla sofferenze bancarie e dei quali si vogliono liberare alla svelta. Incentivare queste operazioni di alienazione dei beni, incoraggiando i privati ad acquistarli, favorisce le banche le quali, dopo aver sequestrato in lungo e in largo case a chi non riusciva a pagare le rate del mutuo, si sono accorte di aver esagerato, ed ora, con l’aiutino di stato, hanno la possibilità di rivenderle, facendo cassa, realizzando nuova liquidità. Così pure la norma sul pagamento delle multe, che allunga di alcuni giorni il ritardo, purché esse siano pagate non in contanti o con bollettino postale ma via home banking, cosicché la banca ci possa lucrare.
Pur ridendo delle teorie complottistiche, lo straordinario intreccio tra sistema bancario e sistema politico, questo mostro ecatonchiro che si è venuto a creare oggi in Europa, non fa che accreditare le teorie dei fanatici no euro, dei saccenti che credono di saperla sempre più lunga, macchinando dietrologie in ogni situazione, e degli scemi del cosiddetto “signoraggio bancario”. Soprattutto questi ultimi, dopo aver studiato un po’ di scienza delle finanze, un po’di narrativa legal thriller, e aver fatto un corso di dizione, riempiono le sale con le loro strambe teorie modulando la voce, a metà fra il Nessuno de “La Gabbia” e Roberto il baffo, nei convegni che tengono in giro per l’italia, nei quali rifilano paccate di libri ai beoti che li applaudono. Io non sono certo un sostenitore della teoria della Sinarchia, né mi sono mai lasciato condizionare dalle trame apocalittiche. Devo però riconoscere che le banche sono le vere padrone dell’economia italiana, e il socio di maggioranza di ogni azienda. Sia chiaro, lo scenario descritto non è stato determinato solo dalle banche, non è imputabile a loro esclusiva responsabilità; tuttavia, a causa della crisi mordace che ha colpito l’Occidente negli ultimi anni, in Italia come in Europa, tutte le aziende, per via del crollo delle borse, delle difficoltà di mercato determinate dalla concorrenza dei paesi dell’estremo oriente, anche per mancanza di una classe imprenditoriale adeguatamente preparata, hanno perso la competitività e con essa la liquidità. Dunque, dalle piccole e medie alle più grosse e strutturate, le aziende sono andate in sofferenza e nell’insufficienza di mezzi propri sono state costrette a rivolgersi alle banche per accedere al credito. Di fatto, l’istituto bancario è diventato il dominus della situazione, il principale attore del business italiano nella contingente stagnazione, e questo ha causato scompensi e discrepanze. Trovandosi padrone del campo, le banche hanno deciso, appunto da playmakers, come giocare e con chi giocare, in base a valutazioni del tutto discrezionali, tanto insindacabili quanto opinabili, in certi casi assurde, criminogene, senza che nessun arbitro moderasse il gioco, senza che qualcuno intervenisse a sanzionare certi comportamenti. Ciò ha creato disparità di trattamento, diseguaglianze, e una concorrenza viziata, sbilanciata, fra azienda e azienda. Gli imprenditori più furbi, amici degli amici, si sono visti spalancare le porte, mentre quelli meno ammanicati se le sono viste battere sul grugno. Inutile dire che è soprattutto a danno dei più piccoli che le banche hanno esercitato il credit crunch, stigmatizzato dalle varie associazioni di categoria, ma mai dalla Banca d’Italia. Molto spesso, le grandi compagnie per le quali le banche hanno allentato i cordoni della borsa, hanno poi utilizzato quella fiducia per operazioni spregiudicate o truffaldine (ricordiamo la famigerata finanza creativa che galvanizzava i tanti piccoli grandi Ricucci, Coppola, Fiorani, ecc.), mentre le aziende per le quali si esercitava la stretta creditizia sono state costrette a licenziare o a chiudere, e magari avrebbero utilizzato quel credito per investimenti seri, operazioni oneste. Oggi, che si viene a sapere che dei finanziamenti regionali ed europei tutti hanno fatto strame, che hanno spremuto quel che potevano da questa vacca da mungere (per restare nel Salento, a 56 milioni di euro ammonterebbero le truffe), allora, ecco che a causa dei furbi, pagano gli onesti, cioè i fessi. Accedere ad un finanziamento pubblico è difficilissimo per un’azienda. Difficilissimo, istruire la pratica agevolativa, a volte affidata a commercialisti senza scrupoli che pensano solo alla propria lauta parcella. Difficilissimo, ottenere l’accoglimento della pratica ed il relativo finanziamento senza avere dei “santi in paradiso”, ossia delle conoscenze nei posti di comando. Una giungla selvaggia, gli adempimenti che occorrono ed il tempo da spendere, senza alcuna certezza che la pratica vada a buon fine. Di fronte a tali tempi e costi esosi e alla mancanza di “santi in paradiso”, alcuni rinunciano in partenza al finanziamento a fondo perduto, con la conseguenza che non possono investire in nuovi settori produttivi. Così, l’economia al Sud arranca, nemmeno si può pensare ad un ricambio generazionale e ad una nuova classe dirigente. Chi continua ad ingrassare invece sono le banche, l’azionista di riferimento della Spa Italia, con il beneplacito della Banca d’Italia, della Consob e dello stesso Governo. Quando queste falliscono, vedi i casi di cronaca, chi ne paga le conseguenze sono sempre gli investitori o peggio i poveri risparmiatori, magari gli stessi che si sono visti rifiutare un mutuo, oppure una rinegoziazione dello stesso, ai quali magari è stata sequestrata la casa o l’azienda, e che vengono anche a perdere quegli ultimi risparmi rimasti sul conto corrente. “Cornuti e mazziati”. Così va in l’Italia.
Paolo Vincenti
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