di Marcello Buttazzo

Vite sofferte, vite travagliose, giocate ai margini, deflagrate dalle centomila guerre, che sporcano e insanguinano le contrade del mondo. Vite prese a calci, a sputi, vite negate, non riconosciute da chi detiene lo scettro del potere dominante, che non s’accorge di praticare ogni giorno, con truce filosofia escludente, una selezione di anime. C’è chi, per ragioni economiche e sociali, viene ordinariamente fatto fuori da chi organizza e guida le danze e viaggia costantemente in prima classe. Il darwinismo sociale, la predominanza degli “eletti”, a detrimento dei più poveri e indifesi, è una acquisizione aberrante e deviata, che è stata mutuata dalla biologia. Solo che, in Natura, l’eterna lotta fra gli animali e la sopravvivenza del più adatto hanno ragioni inerenti, precise e precipue, che consentono gli equilibri ecosistemici e la perpetrazione delle specie. Invece il darwinismo sociale è una vergogna mefitica, è una iattura messa in scena dalle classi privilegiate per preservare l’egemonia e fare carne da macello dell’umanità subalterna. Vite e vite. Vite silenziose, quelle dei nostri anziani, che con pensioni minime da fame, in barba alle sbandierate riforme “miracolose” del baldanzoso “rottamatore” in camicia bianca, non riescono a sbarcare il lunario. Esistenze violate, quelle di tanti giovani, che si muovono nella disperazione, senza denari, senza lavoro, che dovrebbe essere cimento costituzionale, atto a dar dignità e decoro, e non una concessione piovuta dall’alto. Vite coi ginocchi piagati di tanti disagiati psichici, che sopravvivono talvolta alla malattia dentro un corpo estraneo, che non risponde a sollecitazioni esterne. Malati di diverse patologie, che pagano dazi pesanti. Personalmente, non sono attratto dalla storia e dalla esegesi degli strati cosiddetti vincenti, che sovente mi appaiono artefatti, meschini, chiusi a chiave nei loro egoismi, benefici, prepotenze. Personalmente, sono attratto irresistibilmente dalle vite marginali, spese ai confini di questa opulenta società. Esistenze difficili, complesse, ma feconde come terra rossa di zolle assolate. Esistenze dolenti, che reclamano solo attenzione, un abbraccio, una carezza. Amare è ciò che ci libera dalla morte e ci fa entrare in sintonia con l’universo. Amare l’altro è una necessità, è l’ineludibile gioco. Chi vive solitario, appartato, ha nel cuore la ragione stessa e intima delle stelle. Vite di migranti con il capo chino, di fatto con pochi diritti, la schiena curva a faticare nei duri cantieri, a raccogliere per due soldi pomodori e angurie nei campi ingenerosi del nuovo approdo. Sofferenza di carcerati stipati gli uni addosso agli altri in piccolissime, asfittiche celle con conforts inesistenti. Rabbia e angoscia di giovani vite, tagliate fuori da un sistema produttivo veloce e brutale. Lamenti di uomini indigenti, che abitano quartieri dove arrivano fiochi raggi di sole, o addirittura “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”. Problematicità che corre, scorre, inevitabilmente. Ma la complessità delle situazioni può aguzzare l’ingegno. Il travaglio profondo può squarciare veli e mettere in contatto e in interazione una umanità diversa. In un rapporto inclusivo, di condivisione, molti di noi sono tirati in ballo. Quante sono le lacerazioni ancestrali, antiche come il tempo, che qualcuno ci ha aiutato a ricucire con paziente ago di pace e d’amore? Siamo in tanti ad essere anime periferiche. Ogni individuo culla fra le braccia tutto l’amore del mondo. E l’amore come un bimbo ha bisogno di avvedutezze, di cure. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambina e ogni bambino hanno nell’intimo dolori, paure da esorcizzare, ansietà da vincere, ferite da suturare e da nutrire. Tutti siamo anime colpite: con l’amore soltanto riusciamo a battere le tenebre. E non esiste più gelo, più strazio, perché in ogni essere umano risiede la ragione più autentica e fondata d’una essenza.

           Marcello Buttazzo