di Marcello Buttazzo –

già conoscevi la tua fine
avevi gettato il cuore oltre il confine
del moralismo d’una società perbene.
bruciavi il tempo bruciando nel suo fuoco
come il sacerdote brucia nel turibolo l’incenso
tradito dall’amore, un lupo che brama sesso.
macellato fino all’osso, messo in croce,
dal Golgota all’Idroscalo morto ammazzato
il corpo amato senza resurrezione
e poi l’ultimo respiro: liberazione.

È stato pubblicato da poco (settembre 2023) il libro di poesie “Poco più di niente” (Edizioni Ensemble) di Marco Masciovecchio. Il poeta romano, in questo suo esordio, costruisce un percorso accattivante di pensiero e di lirismo, una storia di strade, di vicoli, di ricordi, di ferite, di carne e sangue, di rimandi letterari. Il riferimento più consistente e anche praticato nella sua scrittura è quello a Pier Paolo Pasolini. Il distico con cui s’apre la silloge è costituito da versi del grande poeta di Casarsa: “Senza di te tornavo, come ebbro/ma più capace d’esser solo, a sera/quando stanche nuvole dileguano/nel buio incerto./” Masciovecchio, in apertura della sua raccolta, riporta alcune parole molto sintomatiche, che sono una dedica e al contempo un progetto filosofico e ontologico: “…alle ombre che mi fanno compagnia”. E, in effetti, scorrendo le bellissime ed eleganti poesie di “Poco più di niente”, campeggiano tante ombre, visioni, immagini, struggimenti, che danno linfa vitale al procedere del verso. Perfino le ineludibili “zone d’ombra” del poeta si risolvono in uno spaccato ricchissimo di suggestioni e di momenti, di tessere d’un mosaico esistenziale, che attrae e, a volte, dilacera. Nella prefazione Renzo Paris, a un certo punto scrive: “Poco più di niente è composto da versi liberi, casualmente assonanzati ed è un grido estremo di un “povero cristo” che prima dell’alba, nella notte nera, cerca un senso alla sua vita, attraverso visioni e ombre del suo lontano passato. Il suo corpo “insanguinato”, proprio come quello di Cristo, è al centro del libro che inizia con una poesia dedicata a Pasolini, che aveva gettato “Il corpo nella lotta…”. Masciovecchio vive la notte con intensità, con sincerità, con profondità. L’insonnia è la sua badante, di notte pulisce la sua bocca, sporca d’infetto sangue veleno ingoiato durante il giorno. Masciovecchio sulle rotte sempiterne della notte viaggia nel pozzo dei ricordi. E potremmo dire che la reminiscenza è davvero viva. Il poeta ricorda il gesso sulla lavagna d’asfalto. C’è chi volteggiava come la farfalla di fiore in fiore. Per la Città eterna, Marco Masciovecchio incontra un’umanità subalterna e marginale, desolati barboni, ubriachi che barcollano lungo la via e farfugliano incomprensibili parole. Barboni, che sempre sulla scia del ricordo, raccontano quando da bambini giocavano a pallone e saltavano gli avversari come birilli. Barboni che hanno dovuto subire lo scacco dell’esistenza inflessibile. Quest’umanità marginale è fortemente caratterizzata e intensamente cantata. Il Tevere soffia sulla faccia del poeta. Lui osserva sul ponte Sisto un disgraziato che canta, un altro che chiede soldi per mangiare. “Poco più di niente” è lo scritto d’un autore che ama la notte, il ricordo, la vita, l’unica che abbiamo da calpestare. L’ancestrale ferita è sempre aperta, zampillante. Talvolta, la reminiscenza si fa storia d’infanzia. Come quando, Masciovecchio rammenta che d’estate correva dietro ad un pallone, con i sacchi d’immondizia come pali, e le urla dei pensionati dai balconi. Certo, a volte, può sembrare che la Roma evocata dal poeta sia completamente in preda al caos, al disordine, all’ingiustizia. In una nota di lettura del curatore Giuseppe Cerbino, si può leggere: “Siamo confinati nell’ingiustizia fino al midollo, “fino all’osso”, fermi al baratro che ci separa dall’estinzione poiché arrivare all’osso significa innescare la cancrena, la putrescenza, un processo irreversibile che non consente ritorni se non quelli di una replica dei gesti all’infinito”. È vero, Masciovecchio non ha eccessiva fiducia nell’umanità, vede dall’alto le macerie di questa civiltà morente, schiacciata fra consumi e niente, trascinata dall’inerzia verso la fine, senza nessun valore, senza amore. Eppure, la sua scrittura è una ricerca di lampi d’esistenza, di vie di fuga, come quando canta: “dentro i tuoi occhi cercavo/un attimo d’eterno/prima di sanguinare durante il giorno/”. La sua scrittura fotografa l’esistente impietosamente, senza sconti, come quando dice che la sporca guerra non è seme fecondo, ma gocce di sangue che penetrano la terra.  In “Poco più di niente”, la solitudine del poeta si sostanzia in racconto continuo, da leggere senza soste. Una poesia che attraversa la notte, in attesa d’un’aurora nuova e selvaggia.


dalla tua mano
lascia ch’io cada
come una piuma,
è una carezza l’aria,
impatto sulla terra
e sono seme
metto radice
al buio privo di luce
poi torno a respirare
e sono fiore
e poi di nuovo seme
dalla tua mano
continuerò a cadere.

                                                 Marcello Buttazzo