di Vittorino Curci –

“NOTTE DEI POETI” (OSTUNI, 10 GIUGNO 2016)

Le poesie lavorano in modo preciso sull’inesprimibilità verbale.
Lutz Seiler

Sono contento di parlare alla presenza di tanti giovani poeti anche se, devo dire, parafrasando quel famoso verso di Montale sui proverbiali insegnamenti della Storia, io non sono magistrus di niente.
Da bambino credevo che nella vita prima si impara e poi arriva il momento di insegnare quello che si è imparato in tanti anni. A me purtroppo questa svolta non è mai arrivata e quindi mi sono rassegnato ad essere un apprendista a vita. Detto in parole povere, io non ho veramente nulla da insegnare. Al massimo posso raccontare qualcosa della mia esperienza. Ed è quello che mi accingo a fare nei pochi minuti che mi sono stati assegnati.

Un famoso mago diceva: A che serve far sparire un elefante se prima non lo si è mostrato al pubblico? Eppure ogni giorno assistiamo al contrario. Ci dicono che l’elefante è sparito ma noi non l’abbiamo visto prima, e non ci è concesso muovere obiezioni.
Nella poesia questo non è possibile perché nella poesia non si può barare. Il gioco è tutto scoperto, senza trucchi, perché la poesia ha a che fare la Verità.
La Verità è per definizione indefinibile. Per questo i veri poeti non cercano mai di definirla ma di rappresentarla al lettore come un grido che scaturisce dalle stesse parole. La grande poesia è sempre un grido perché la parola poetica si spinge fino ai limiti delle nostre possibilità espressive, non esplora orizzonti ma si innalza fino a percepire il silenzio dell’universo, oppure scende nel baratro per cercare di salvare la bella Euridice.
Se, come io penso, il poeta è permanentemente ostaggio della Verità, egli non può fare altro che obbedirle. Non ha altra scelta. E allora si sente afferrato per la gola e cerca di respirare, o meglio di inspirare (inspirazione e ispirazione sono la stessa cosa). Ma questo non basta, perché la vera poesia si ha solo quando avviene quella che Celan chiamava la “svolta del respiro”.

Io scrivo poesie da 40 anni. Cominciai azzerando il linguaggio. Le parole erano troppo dense e cariche di significato per le mie povere forze. Così la mia prima pubblicazione fu una plaquette riconducibile ai canoni dell’arte concettuale in cui, a modo mio, tessevo le lodi della tautologia. Il titolo di quella plaquette era: “Esempi di poesia non patologica”.
Passando di esperienza in esperienza, dopo 40 anni la sola cosa che posso dire è che ho imparato a farmi delle domande via via più intelligenti sul mio lavoro di poeta. Lo so, non serve a niente da un punto di vista pratico, ma per me basta e avanza, e posso assicurarvi che le mie giornate non sono affatto noiose.
Mi viene in mente una cosa che diceva il pittore Maurice de Vlaminck: “Ero un barbaro tenero e pieno di violenza. Traducevo per istinto, senza metodo, una verità non artistica, ma umana”. So cosa vogliono dire queste parole perché io non ho fatto altro in 40 anni: ho tradotto per istinto, senza metodo, una verità non artistica, ma umana. Detto con parole semplici, prima di lavorare su un testo poetico bisogna lavorare sul poeta, e prima ancora di lavorare sul poeta bisogna lavorare sull’uomo. Qui calzano a pennello le parole che disse una volta Albert Ayler – negli anni ’60 uno dei grandi protagonisti del Free Jazz in America: “Mia madre non ha messo al mondo un musicista di jazz, ma un essere umano. E questo è ciò che io suono: musica umana”. Posso dire di me la stessa cosa: la poesia che io scrivo è fondamentalmente poesia umana. Non mi importa nulla se al pubblico piace o non piace quello che scrivo. Ciò che conta per me è non tradire me stesso, le cose in cui credo sulle quali ho costruito la mia vita. Insomma, scrivere poesia per me significa soprattutto essere onesti con se stessi. Se non fosse così, che gusto ci sarebbe?
Venendo agli aspetti pratici della mia esperienza, la prima cosa che sento di dire è che io ho sempre guardato ai vari linguaggi dell’arte. Ho imparato più cose dagli artisti visivi e dai musicisti, che dai poeti, e questo mi ha consentito di avventurarmi nei territori della poesia con maggiore libertà.
Faccio qualche esempio.
– Matisse consigliava ai giovani pittori di tagliarsi la lingua perché le parole che può dire un artista sul proprio lavoro non spiegano niente, non aggiungono niente al valore oggettivo della sua opera. Del resto l’opera, se ha delle qualità, è destinata a vivere senza il suo creatore.
– Secondo esempio. Salgado, il grande fotografo brasiliano, nel film di Wim Wenders “Il sale della terra” dice: “Se metti diversi fotografi nello stesso punto presenteranno sempre delle foto molto diverse perché necessariamente vengono da esperienze molto, molto diverse. Formano il loro punto di vista, ciascuno in funzione della sua storia.”
– Terzo esempio. Roscoe Mitchell, sassofonista del famoso Art Ensemble of Chicago, in un’intervista disse una cosa tanto bella da sembrare stupida: “E’ più facile secondo me essere se stessi che cercare di essere qualcun altro”.

Io ho riflettuto continuamente su queste cose, così come ho sempre riflettuto sulla realtà che è una fonte inesauribile di ispirazione a condizione di osservarla con occhi sempre nuovi. Quando questo succede si creano le condizioni perché si realizzi quel miracolo che chiamiamo arte. Sì, l’uomo può compiere veramente dei miracoli. Può farlo in tre modi: attraverso la politica, attraverso la scienza e attraverso l’arte.

La politica, purtroppo, in questi anni non è in grado di fare miracoli semplicemente perché vi ha rinunciato. I suoi problemi più grossi non sono, come si pensa, l’incompetenza o la corruzione, ma la sfiducia, la mancanza di pensieri lunghi e, soprattutto, l’incapacità di capire il mondo in cui viviamo e le sue trasformazioni. Per fortuna la scienza e l’arte tengono il passo. Se pensiamo per esempio alla medicina, i suoi numerosi progressi si sono trasformati in altrettanti miracoli che ogni giorno salvano la vita a milioni di esseri umani. Per quanto riguarda l’arte, invece, i suoi miracoli attengono alla sfera spirituale. E quando uso l’aggettivo “spirituale” non c’è nulla che ha a che fare con le religioni.

Aggiungo qualche altra considerazione.

La poesia che amo non è quella che racconta qualcosa al lettore ma quella che risveglia qualcosa nel lettore.
Il tempo di ogni poesia è quello dell’avvento, il tempo dell’attesa. In questo tempo ci estraniamo dalla realtà visibile e principalmente dal nostro io, e ci mettiamo in cammino verso qualcosa che ci aspetta da sempre, di cui non sappiamo nulla, ma che quando incontreremo riconosceremo immediatamente.
I poeti migliori di questi anni sono quelli che cercano di risalire la corrente impetuosa di egoismo e imbecillità che sta travolgendo le nostre vite. Credo perciò che bisogna maturare un sentimento di responsabilità verso quel grande patrimonio che è rappresentato dalla memoria collettiva di una comunità. Nella gabbia del suo tempo, l’artista, come la pantera di Rilke, non fa che girare intorno “a un centro / ove stordito un gran volere dorme”. Questo “gran volere” è la grazia di uno smarrimento fatto di epifanie minime che procedono dal noto all’ignoto (esattamente il contrario di quanto accade per la scienza e il senso comune). Insomma: verticalità della parola, flagranza del ricordo, memoria del futuro, immaginazione del passato, trasparenza del tempo reale, evocazione del presente (Bonnefoy), essere allo stesso tempo in corpi diversi, guardare ciò che è invisibile, ascoltare ciò che di norma tace. Ossia: la parte in ombra di tutte le cose. E ancora: disvelamento di sé a se stessi congiungendo la dimensione storica e materiale con quella mitica e spirituale.
Se sono stato scelto dalle parole per dire ciò che è necessario che esse dicano, il mio compito è anzitutto quello di definire e puntualizzare uno statuto dell’Essere.

Concludo dicendo brevemente (molto brevemente) quali strumenti utilizzo quando scrivo una poesia, quali esperienze, quali conoscenze.
Uno. Io costruisco le mie poesie così come un tempo venivano costruite le case di questi nostri paesi, cioè dall’interno.
Due. La poesia è una composizione di parole. Il che vuol dire che essa è fatta soltanto di parole. Utilizzando le parole io inizio una lunga e spossante discussione con me stesso. Alla fine però non posso rimanere lì a discutere, sono costretto a scegliere. Una buona poesia per me è soltanto il risultato di una buona scelta.
Tre. Il problema che mi pongo ogni giorno è quello di scrivere testi che non siano stati ancora scritti, poesie che nascano da uno scarto rispetto a tutto quello che, in un modo o nell’altro, appartiene al passato e alle sue convenzioni.
Quattro. Per me la poesia non racconta qualcosa ma costruisce una realtà.
Cinque. Grazie a questa realtà il poeta ha la possibilità di creare un suo mondo che può piacere o no, ma questo non è importante.
Sei. Una cosa che ho capito benissimo è che la poesia ha bisogno di cesure, respiri, soste, silenzi.
Sette. Che cosa ci si deve aspettare da una poesia? La mia risposta è semplice: deve dirci qualcosa di noi, qualcosa però di profondo che abbia a che fare con quella Verità a cui facevo riferimento prima e di cui io, sinceramente, non so proprio nulla. L’unica cosa che posso dire è che tutte le volte che siamo nei paraggi della Verità proviamo una sana commozione, e questo ci fa sentire, e ci spinge a diventare ogni giorno di più, degli esseri umani migliori.

Vittorino Curci