Anna Rita Nutricati

Una nota di lettura di una poesia indedita di Cosimo Russo

È un pensiero arcaico, popolare rimasto invitto alle tentacolari invasioni moderniste, a riconoscere al cuore la cuna somatica ed ideale dello struggimento amoroso, dell’annodamento romantico.
Per natura monologante, si raggomitola su sé stesso, e stordisce i puntellati equilibri  con un incensurabile vaniloquio. Facile, dunque, addossargli tutta la responsabilità del guazzabuglio interiore, del marasma emozionale. Le sue irragionevoli ragioni non coprono, mai, del tutto le imponderabili colpe. La trasmodante discorsività con cui si intrattiene in giri e raggiri di parole pecca di inconcludenza. Dinanzi alla vividezza creaturale, il cuore si ammutolisce, le parole si insabbiano codarde, omertose. Ma la rimozione verbale, l’assassinio locutorio rappresenta il segnale più scoperchiante di  un bene intenso, di uno stretto vinciglio, forzatamente, secretato, abbuiato tra raggrinziti slanci decisionali.
Il poeta sa infiorare quel silenzio, saturo di omissioni, fino ad innalzarlo ad altare e celebrare, da lì, il controverso caso di un amore, inversamente reticente. Nella patente retorica del verso, pronuncia le confidenziali ambasce, ma accostatosi, al caro viso, si zittisce.  

In una poesia inedita Cosimo Russo taccia così il suo cuore nolente:

Timido questo mio cuore
non vuole saperne
di dichiararsi.
Vigliacco questo mio
cuore
preferisce esplodere dentro
che baciare
la realtà.

Malato il mio cuore 
cela un silenzio 
che solo il poeta 
conosce
e questa bocca,
appesa per inerzia 
non fa altro 
che ingoiare saliva 
secca.

È un’arpa questo
mio cuore
di una musica 
che non dirà.

M’assomiglia
questo mio cuore.

Adoprando una stretta sequela recriminatoria, il poeta asserraglia il cuore, il suo cuore, con una mitraglia di dileggi, di deplorazioni che non escludono, tuttavia, inflessioni pietistiche e singhiozzanti remissioni.
Il poeta dispone le pastoie relazionali secondo un climax ascendente, la cui enfasi accusatoria si impregna di tonalità caustiche per l’utilizzo di pungenti quanto scialbi epiteti aggettivali: “timido”, “vigliacco”, “malato”.
D’altra parte, quello di Russo è un esplicito atto di condanna: “[…]questo mio cuore”, ripetuto con cadenza ossessiva, è il reo soggetto che patisce, nello spazio lirico, la pubblica berlina, come, finora, l’autore ha dovuto subirne, nella vita, il pusillanime capriccio. Se l’amore pavidamente tace, lo scorno deve essere, invece, manifesto, servendo da ammonizione, da denuncia per un giusto e mondano contrappasso.

“Malato il mio cuore /cela un silenzio/ che solo il poeta conosce”.

La dissimulazione tocca il parossismo: il cuore, non soltanto impedisce alla parola di parlare e alla bocca di osare, ma arriva, persino, a silenziare il silenzio, diffidandolo dallo svelare, come un quatto orecchio infedele, l’infuocato contenuto. “Solo il poeta” può intuire, dell’incaglio verbale, l’ invertebrata essenza semantica, il senso di ciò che non è stato, neppure, proferito in quanto corazzato da invalicabili ritrosaggini. Proprio il poeta che padroneggia, con maestria, la fortuna lessicale sa leggerne di essa, persino, la povertà, lo sconfittismo, l’abbandono aprioristico. In una prospettiva progettuale pare che Russo – poeta voglia lasciare ai poeti il compito di decifrare non solo la perfetta meccanica del testo letterario, ma soprattutto il guasto penetrante, il giro a vuoto, il silenzio.

La strategica destrutturazione sentimentale finisce per degenerare in avvizzimento fisico: “[…] e questa bocca/ appesa per inerzia/ non fa altro/che ingoiare saliva/secca”. Le labbra non umettate sviliscono come una radiosa polla d’acqua si vanifica nella coriacea roccia. La “saliva secca” che il poeta è costretto ad ingurgitare, rappresenta, come lega ossimorica, la somatizzazione di una desertificazione espressiva che castra ed incastra la passione.

È un’arpa/ questo mio cuore/ di una musica/ che non dira’”. La metafora innescata dalle sopraffini “corde del cuore” si perfeziona in antico e nobile strumento, ma, neppure la musica pizzicata e impalpabile si arruola a dovizioso latore. Oltre al licenziamento del codice verbale, anche, la più rapinosa e svolazzante favella musicale si ritira, sprangata dall’interno.
La spersonalizzazione armata, con cui il poeta rinfaccia al suo meschino cantore la defezione dagli intriganti accerchiamenti volitivi, viene attenuata dalla chiusa che ricompone la scissione soggettiva: “M’assomiglia/questo mio cuore”.

Nella similitudine caratteriale con l’accidioso e miserando portavoce, Russo ritrova la grafia emotiva della sua indole, di cui ne salva, sottovoce, dopo cotanta ostentata repulsione, la goffa grazia del pudore. 
La lontananza che stacca la mano ciurlante dal sensuale tocco di pelle dolcemente, scivola in una surreale propinquità.

Rainer Marie Rilke capovolge la costrizione in volo, l’ostacolo in soluzione, e al miope scoramento replica confidente:

Noi ci tocchiamo.
Con che cosa?
Con dei battiti d’ali.
Con le lontananze stesse
ci tocchiamo. 

Nelle realtà oniriche e rievocative la fine non ha mai fine, lieve indietreggia per proteggersi dall’ultima signatura, dal doloroso avanzo delle occasioni perse. Persino la morte ritrae i suoi artigli.

In una solitudine, ammansita e complice, si riversano, allora, folle di anime disperse, questuanti l’una dell’altra, non attratte dal ricordo, ma da una strana nostalgia del non vissuto.
La distanza si riconverte in cangiante vogata d’ali e a mezz’aria, tra un cielo, più vicino, e una Terra, un po’ più lontana, l’autogeno amore si riprincipia, come un mistico amplesso voluto dall’intero universo.
Si rammagliano le ferite e ciò che sembrava perso è, favolisticamente, riapparso.
L’uomo non sconfessa più il suo assillo, né si premura di reprimerlo, ma lo ammanta di divine ascendenze. La voce si squarcia ad eco rispondente del salpato segreto.

Il maestro Franco Battiato:

Tutto l’universo obbedisce all’amore
Come puoi tenere
Nascosto un amore
Ed è così
Che ci trattiene
Nelle sue catene
Tutto l’universo obbedisce all’amore.

Anna Rita Nutricati