di Marcello Buttazzo –

“Per sentire te non valgono i sensi consueti, che si usano con gli altri. Bisogna attenderne di nuovi. Si cammina al tuo fianco sordamente, al buio; inciampando nei forse, nelle attese; sprofondando verso l’alto con un gran peso di ali”. Versi accorati di Pedro Salinas, che mi rimembrano un passato, trascorso amore, purezza di giglio, che ha scavato nelle mie membra, ha scandito il tempo, s’ è fatto carne per banchetti festivi. Un amore campo dorato di grano, sole assatanato, crepuscolo marezzato, notte fruscio di stelle. Cosa eri dolce fanciulla per me? Un senso nuovo, un vento caldo, di puro istinto, di intimo e vero sentimento. Per lungo tempo non riuscì più a interloquire con te, a scrivere di te, perché avevo l’anima ferita e dilacerata, la pelle bruciata dalla impietosa realtà, che talvolta m’opprime e non mi fa cantare gli angeli più belli. Con note di musica. Realtà esterna, accidente incipiente, che si mostra qualche volta nel suo volto più dimesso, più sfatto: nei suoi occhi non traluce affatto il sapore verdeazzurrino del mare, ma si accentuano solo le nebbie, le brume burrascose d’un incerto presente. Quante volte ho pensato, nel mio rivo strozzato, nel mio sogno interrotto, fra le mani scavate di sangue: la fanciulla del giorno ha perso il suo lucore di fiamma, il suo nitore di immacolati vestimenti. Quante volte pensai: dov’è la fanciulla di baci e di miele? Essa, forse, se ne va per la città stancamente afflitta, china a misurare l’affaticato passo? Quante volte pensai: io non riesco più a narrare la sua bellezza di cristallo. La musa di oggi mi strabilia con i suoi incredibili occhi d’incanto, con il suo pensiero arguto, con la sua bellezza di mandorla intatta. Ma anche l’antica fanciulla mi naviga dentro, viaggia nel sommerso, nella matrice delle ossa. Lei era il risveglio, le stelle, il tormento. Lei era la vita e la morte. Ora la fanciulla del tempo che fu è dolcezza inalterata, la maledetta incapacità di scrivere di lei. Quante volte mi fermai davanti ad un tramonto, dicendole: ti voglio più del momento, più dello spazio, più del tempo e delle cose sensibili. Quante volte le dissi: oltre il presente che quotidianamente mi insulta, ci sei tu in un giardino di paese, che dai nutrimento a gerbere e rose. Per intanto s’adagia questa vita su incerti crinali. L’anima vacilla, l’alba ancora m’incanta. Ogni sera, t’aspetto fra le pieghe del cielo, quando navighi su aeree navicelle. Inestinta voglia di tenerti fra le braccia, di fare del tuo seno un cuscino di piume. La fiammella del vivo ricordo non si spegne. La materia deperisce, si corrompe, ma la storia è vibratile. Sempre. Non riesco più a scrivere di te, ma dentro sei palpitante come eterna memoria. La melanconia corre come lenta marea lunare. Né pensieri, né parole, né rose scarlatte, ma solo una carezza da mangiare. Quella carezza che tu mi desti quell’ultima sera davanti al nostro Caffè, mentre mi prospettavi scenari di lontananze. Né pensieri, né parole, né violette di campo, ma solo un bacio da bere sulle labbra strusciate. Ricordi? Quel bacio furtivo, che ti strappai nel tuo paese, quell’ultima sera? Un bacio bagnato. Labbra avide d’amore. Volevo confutare con solide argomentazioni la meschina retorica del distacco, però volentieri mi accontentai delle tue tenere labbra.

Marcello Buttazzo