di Marcello Buttazzo – La politica, sovente, è terreno sdrucciolevole, di lotte cruente, di scontri frontali. I partiti e i movimenti s’accapigliano aspramente sulle più disparate questioni. Capita, talvolta, che si oltrepassino i limiti di guardia e si usi un linguaggio scorretto, una sconveniente postura semantica. Certo, il conflitto dialettico può incrementare la discussione e coadiuvare la crescita democratica, può favorire la critica costruttiva. Epperò, sempre nei meati d’una contegnosa gestione della parola. Al cospetto di virulente contrapposizioni di principio e di fatto, s’avverte più che mai la necessità di predefinire un argine invalicabile, magari ponendo, quando possibile, l’attenzione sul tema della “riconciliazione”. Più ampiamente possiamo dire che, nel vivere civile, negli accadimenti non solo politici ma che riguardano ogni evenienza umana, sia di prioritaria importanza per tutta la comunità cittadina coltivare una inclinazione alla pacificazione, ad una sorta di serafica osservazione e interpretazione degli eventi. “Pacificazione”, prima che un antefatto politico, è una pre-condizione vitale e essenziale, che ci mette dapprima in contatto, in ascolto con noi stessi. E poi ci fa edificare ponti di conoscenza, di bellezza, di compartecipazione, d’umano sentire, con l’altro da sé. Sappiamo che alla base d’una corretta e giusta comunicazione con gli altri individui, c’è il legittimo riconoscimento di se stessi, della propria multiforme e multipolare identità, in perenne spostamento dinamico. Non si può essere considerati, visti dall’interlocutore, se non si ha piena e solida consapevolezza del proprio sé. Partire da se stessi e abbracciare empaticamente gli latri. La solidarietà, la comprensione, la reciprocità, il dono, dovrebbero essere paradigmi cruciali e di basa, di fondamento, d’una condivisa e unitaria etica di comportamento. E anche quando ci si affronta con le “armi” sostenute del conflitto, ci si dovrebbe sempre fronteggiare con civile contegno.

Marcello Buttazzo