di Marcello Buttazzo – Dopo la finta “rivoluzione liberale” berlusconiana del 1994, fallita miseramente prima di nascere, i vari governi (di centrodestra, di centrosinistra e tecnici), che si sono succeduti fino ad oggi alla guida del Paese, non sono stati all’altezza delle aspettative d’una cittadinanza plurale. In questi anni, la politica ha traversato, sovente, fasi turbolente, di incertezza, di smarrimento, di prostrazione, di cauti ottimismi. Parimenti, una parte considerevole della società civile è allarmata, sconfortata, percorre quotidianamente i selciati sterrati della precarietà.

La vita ordinaria, ahimè, può diventare un porto di tribolazioni. Soprattutto, chi da sempre viaggia in terza classe e patisce l’indigenza, avverte pesantemente il fardello della crisi economica. In questo tempo svilito e ferrigno, forse, dovremmo gettare sempre uno sguardo oltre l’angusto e stretto giardino del proprio sé. C’è qualcosa che mi preme rammemorare. Come non ricordare chi fa i conti ogni giorno con la malattia e ne respira a piene mani il disagio? Come non rattristarsi intimamente per le giovani e meno giovani generazioni di disoccupati e inoccupati, espulsi di fatto dal connettivo sociale? La cronaca quotidiana dei giornali e delle televisioni è evocativa: quante vicende incredibili e storie travagliose vengono narrate. E sono spia di attualissimi fatti, da rispettare. E dalla politica governativa esigiamo interventi risolutivi. Noi uomini della strada possiamo fare solo semplici considerazioni. Talvolta, non sappiamo come adoperarci e come approcciarci ad un contesto spinoso. Sappiamo, però, che la comprensione e la solidarietà sono lampi d’aurora, spazi di luce, che vibrano. Sono valori assoluti. Tante sono davvero le storie umanissime che commuovono, squassano l’anima, interrogano, compattano le coscienze. Noi umani inevitabilmente siamo legati in una ragnatela di esistenze vissute.

La vita marginale, povera, essenziale di ex detenuti, di ex malati psichiatrici, di ex licenziati, è pulsante, vibratile nella sua frugalità. È fascinosa. Come non comprendere che la sofferenza, la privazione, la malattia, se ben indirizzate, sotto la guida di chiare figure, possono trasformarsi sempre in qualcosa d’altro, di inedito, strutturando solide fondamenta e intrecciando salde maglie di convivenza comune. Cinquantenni fuorigioco, licenziati, messi colpevolmente ai margini da una parte di questa ricca, velocissima e superficiale società del benessere. Purtuttavia, essi non si lasciano trascinare nello strapiombo, nello scuro che tutto obnubila, non si lasciano condurre nell’abisso, ma con un sussulto di dignità e d’orgoglio, quando vogliono, sanno fare vita attiva di cittadinanza. Che è il più meraviglioso bene comune. L’uomo, quando il vento spira e soffia gelido sulla faccia, cerca comunque, per non morire, per non sfiorire, un lento equilibrio. Potremmo denominare questi veri e fantastici italiani dell’emergenza “ronde del lavoro e del decoro”, che certamente sono più colorate, più vitali, più nobili, più pragmatiche, più civili, delle patetiche ronde leghiste dell’ignoranza e dell’inconcludenza. In Italia, un altro esercito pacifico, non violento, amabile e produttivo, quello migrante, si aggira per le strade dei nostri paesi e delle nostre città: un’umanità varia, multipolare, che fra le altre cose è una fondamentale forza motrice della nostra economia. Non riusciamo ragionevolmente a capire perché mai questa gente “diversa” ed errante, vagolante come la luna, non debba contribuire a definire pienamente l’esistente? Perché mai non inserire, con una opportuna legge sullo ius soli, i figli dei migranti nati nel nostro Paese nei gangli vivi del Paese, estendendo loro diritti e doveri di cittadinanza?

Marcello Buttazzo, 1 settembre 2017