di Antonio Stanca –

Quest’anno Mondadori ha dedicato un’edizione speciale a Fight Club, noto romanzo dello scrittore americano Chuck Palahniuk. Era stato uno dei suoi primi lavori, lo aveva pubblicato nel 1996 ma sarà il film ricavato dal regista David Fincher nel 1999 a farne un’opera d’eccezione, un best-seller.

Palahniuk è nato a Pasco, nello stato di Washington, nel 1962. Dal Canada i genitori si erano trasferiti negli Stati Uniti ma poi si erano separati e il piccolo figlio era vissuto per molto tempo nella tenuta dei nonni materni. Nel 1986 si era laureato in Giornalismo all’Università dell’Oregon e, spostatosi a Portland, aveva cominciato a scrivere di problemi di attualità presso giornali e riviste. A Portland aveva fatto pure il meccanico e svolto attività di volontariato. Intorno agli anni ’90 aveva cominciato con la narrativa ma non sempre riuscite sarebbero state le prime opere, racconti e romanzi, finché non erano venuti Fight Club e il film che tanta notorietà gli avrebbero procurato. Da quel momento anche le altre opere, serie dell’orrore, fantascientifica, “dantesca”, avrebbero avuto un successo immediato. Anche col giornalismo avrebbe ripreso e nel 2006 in La scimmia pensa, la scimmia fa avrebbe raccolto molti articoli.

Palahniuk ha sessant’anni e molte fasi ha attraversato nella sua produzione, in molti generi si è cimentato. In questi ci sono stati sviluppi diversi ma rintracciabile sarebbe sempre stata quella posizione di polemica, di contestazione verso la società dei consumi, la cultura di massa, la crisi dei valori morali, la riduzione, la scomparsa nei rapporti individuali, sociali, di ogni aspetto intimo, proprio dell’animo, dello spirito. Questi problemi lo avevano mosso a scrivere e se molto evidenti sarebbero stati in Fight Club sempre sottintesi sarebbero risultati nelle altre opere. In Fight Club lo avrebbero portato a immaginare un protagonista che rimane anonimo per tutto il romanzo, che solo alla fine s’identifica con Tyler Durden, colui che ha ordito, che persegue il Progetto Caos, rivolto alla distruzione del mondo, della civiltà contemporanea poiché fallita in ogni forma del vivere, in ogni senso, in ogni significato dell’essere.

Quell’anonimo protagonista lavora presso un’agenzia di assicurazioni ma stanco, sfinito si sente da una vita, una società così rigida, così determinata nelle sue regole da aver escluso ogni elemento diverso da esse. S’imbatte, quindi, in Tyler Durden, suo alter ego, aderisce al suo Progetto Caos ed ai mezzi che sta preparando per realizzarlo. Per selezionare gli uomini ad esso più adatti Tyler ha creato nei sotterranei dei bar di molte e importanti città americane dei “Fight Club”, delle palestre dove chiunque può accedere se accetta di confrontarsi fisicamente, di lottare contro altri partecipanti e di seguire le regole del posto. Da tali combattimenti spesso violenti fino alla crudeltà, alla morte, emergeranno gli uomini più forti, più feroci, più idonei a prendere parte alle pericolose azioni richieste dal Progetto Caos. Altri saranno scelti per lavorare al Saponificio di Paper Street, altra creazione di Tyler finalizzata a sostenere economicamente il Progetto. E’ tutta una vita clandestina, illegale quella che Tyler ha creato e di essa è il capo, in essa viene ubbidito, amato, venerato. Tutti quelli che vi prendono parte, e sono tanti, pendono dalle sue labbra, considerano profetiche le sue parole circa la fine della moderna civiltà.

Anche a quell’anonimo protagonista, come a tanti altri, Palahniuk farà percorrere tutte le tappe segnate dalle varie operazioni di Tyler, lo farà vedere nei “Fight Club”, nel Saponificio, lo preparerà a quella rovina, a quel disastro finale che in continuazione lascerà intravedere. Anche la donna di Tyler, Marla, farà vedere con lui senza che lei sappia che sono una sola persona e senza che lo accetti quando lo saprà. Saranno tanti i personaggi, gli avvenimenti, i luoghi, i tempi, passati e presenti, che si alterneranno, si verificheranno intorno all’anonimo-Tyler, tanti i pensieri, le azioni che tenderanno ad una vita contraria, opposta a quella finora vissuta, a quanto finora si è pensato, si è fatto, che prepareranno al disfacimento, all’annullamento progettato. Non ci sarà un momento, una circostanza che non neghi quanto esiste, quanto c’è in nome di quanto deve venire, che non rifiuti questa realtà per un’altra da raggiungere. Anche la lingua dello scrittore avrebbe reso questo senso di decomposizione. Si sarebbe composta di frasi brevi, brevissime, a volte di una sola parola ripetuta per intere pagine. I nomi, i verbi sarebbero risaltati e mancati sarebbero gli avverbi, gli aggettivi. Il ritmo del discorso sarebbe riuscito incalzante, rapido. Un linguaggio arido, freddo, limitato nel suo vocabolario.

Più che influenzata da una tendenza o corrente linguistica precedente, minimalista o altra, la lingua di Palahniuk vuole riflettere quel senso di perdita, di sconfitta che ha mosso questo e tanti altri suoi romanzi.

Palahniuk non scrive chiaro perché niente gli è chiaro, tutto gli si è oscurato, tutto è precipitato nell’abisso.

E’ stata questa posizione estrema, definitiva, di volontà ultima a fare di lui in America uno scrittore di culto e di Fight Club una delle opere più riuscite del secondo Novecento.

Antonio Stanca