di Paolo Vincenti –

La stampa estera ha facilmente derubricato i risultati di Cinque Stelle e Lega come la vittoria dei populismi in Italia. Ma a ben guardare non si può fare di tutta l’erba un fascio. Intanto la storia dei due partiti è profondamente diversa. La Lega ha una identità ben precisa, molto più definita, prensile, come quella del geco, più radicata ai territori, rispetto a quella dei Cinque Stelle, che invece è più proteiforme, adattabile, mobile, come quella del grillo che zompetta allegramente da una parte all’altra. Inoltre, la Lega in questo Parlamento è la forza più vecchia, essendo nata nel lontano 1987, mentre il Movimento Cinque Stelle è la più giovane, poiché ha solo dieci anni di vita e cinque di Parlamento. Cambiano poi i bacini di utenza dei due partiti. Quello della Lega è il centro nord, più attento a certi temi, come la sicurezza, l’abbassamento della pressione fiscale, la sburocratizzazione dell’apparato amministrativo. Quello dei Cinque Stelle è il sud, sensibile all’assistenzialismo, alla protezione, nelle sue fasce più deboli, e alla conservazione, nei suoi ceti più alti e parassitari. In effetti, la destra ha sostituito in tutto il centro nord la sinistra che sino alle fine della Prima Repubblica rappresentava la classe operaia e le fasce più deboli ma che nel corso della Seconda ha subito un mutamento genetico, passando a rappresentare il ceto medio e il ceto produttivo, soprattutto la grande impesa. La Lega oggi risponde alle istanze di entrambe queste categorie, i ceti popolari e le aziende, ed ha quindi rimpiazzato nel sentimento della gente la tradizione socialdemocratica e cattocomunista. Il Cinque Stelle nel sud invece ha sostituito il centro destra, specie Forza Italia, che già aveva sostituito la Democrazia Cristiana, nei potentati locali, avversi al nuovo ma gattopardescamente pronti ad abbracciarlo, e nella massa dei sanculotti, fatalmente attratti dalle dazioni gratuite.  Si tratta di due offerte alternative, non coincidenti. Molto difficile dunque che le due forze possano governare insieme e fare quell’alleanza che da vari ambienti filogrillini viene auspicata, caldeggiata. Sarebbe un ircocervo, una fusione a freddo, basata solo sulla legge dei numeri, ottriata, ossia calata dall’alto, per i cittadini che li hanno votati. Anche i programmi sono molto distanti, a partire dal reddito di cittadinanza e Flat tax al 15%, promessi rispettivamente da M5s e Lega, appunto assistenzialismo contro efficientismo e produttività. Ma questo perché, come detto, i bacini elettorali dei due partiti sono diversificati anche geograficamente: il Sud piagnone e sprecone per i grillini, il Nord dinamico e virtuoso per la Lega. E poi diametralmente opposte sono le posizioni sull’amministrazione della giustizia che si potrebbero riassumere grossolanamente in giustizialismo per i grillini (manettari per tutti, tranne quando si tratta di loro stessi) e garantismo per la Lega (che in ciò ha fatto propria la battaglia berlusconian mafiosa forzitaliota). Sul mondo del lavoro, Salvini propone una cancellazione totale della Legge Fornero, mentre Di Maio solo una correzione. Distanza anche per quanto riguarda l’ambiente, unico tema apprezzabile dei Cinque Stelle, i quali invocano attenzione massima alle fonti da energia rinnovabile e l’uscita dell’Italia dai combustibili fossili entro il 2050, mentre la Lega se ne sbatte. In comune hanno una posizione fortemente critica nei confronti dell’Europa, con proposta drastica di revisione dei trattati europei e di uscita dall’euro per la Lega e una posizione più morbida per i 5stelle. Vero che in comune hanno anche la riforma delle banche, con separazione delle banche commerciali da quelle di investimento, che dovrebbero essere maggiormente tassate. Ma questo non basta, perché anche in politica estera le visioni sono differenti. Salvini guarda all’est, in particolare alla Russia,  contendendo al suo alleato Berlusconi il primato del putinismo in Italia. E se non un Orban raddoppiato, Salvini punta ad essere uno zar dimezzato, un piccolo Putin. Di Maio invece guarda a Trump, col quale si sente in connessione sentimentale, facendo propria la pluriennale tradizione filoamericana della Democrazia Cristiana.  Infatti, l’M5s, giunto ora alla maturità, ha cambiato quasi tutto rispetto agli esordi, e dalla sterile protesta sa che deve passare alla concreta proposta, se vuole istituzionalizzarsi. “Il neogrillismo di Palazzo”, come lo ha definito Mario Ajello su “Il Messaggero” del 6 marzo 2018 è iniziato già all’indomani dei risultati elettorali, nel sontuoso Hotel Parco dei Principi scelto come quartier generale dei grillini, e ora il vaffa di Beppe Grillo (che in un video dei suoi allucinati ha dichiarato che il movimento si adatta a tutto) viene sostituito dalla mediazione, e il turpiloquio e le battute da osteria dal fair play e dalla gentilezza istituzionale. Facile che il Presidente Mattarella voglia premiare questo garbo, questa nuova veste del movimento, rappresentata plasticamente dalle grisaglie dal felpato giovane vecchio Giggino Di Maio, e chiami prima l’M5s per dare l’incarico.

Ma nelle more, se non con la Lega,  con chi potrebbe allearsi il Movimento Cinque Stelle? Col Pd. Ma nemmeno questo può essere di suo interesse, come Il “Fatto Quotidiano” da più giorni cerca di dimostrare. Come scrive Andrea Scanzi, Di Maio e soci hanno tutto da perdere ad allearsi col Pd, anche perché si odiano. “Sono mondi ontologicamente inconciliabili, come Cruciani e lo shampoo”. Il Pd perderebbe quel residuo di credibilità che gli è rimasta, dal 19 precipiterebbe al 10% alle prossime elezioni. “Ma anche i 5 stelle avrebbero tutto da perdere, nel momento in cui si mischiano col Pd perdono milioni di consensi. E questo Di Maio lo sa”. Non resta dunque che una strada, di fronte all’Aventino del Pd, ribadito dal nuovo segretario Martina, cioè quella di tornare alle urne. Nell’eventualità di un Governo del Presidente infatti, o Governo di tutti, che dir si voglia, il rischio sarebbe di avere un Parlamento di sole opposizioni, come paventato da Francesco Verderami sul “Corriere della Sera” del 3 marzo 2018. Perché gli assetti variabili, in quanto tali, appunto variano, in funzione degli interessi di ciascuna delle parti. Si andrebbe ad uno scontro permanente, un bellum omnium contra omnes, che oltre ad esautorare il Parlamento farebbe precipitare i mercati e la credibilità del Paese agli occhi dell’Europa, indebolirebbe sia i partiti maggiori che i minori. E si andrebbe comunque al voto. Se è tortora, all’acqua torna.

Paolo Vincenti