di Marcello Buttazzo –

La strada sterrata dell’esistenza può essere bordeggiata da varie e imprevedute evenienze, che non si possono affrontare talvolta con immediatezza risolutiva o con facilità di soluzione. Per innumerevoli e spesso mal definite motivazioni, si può traversare il cammino irto di asperità, ad esempio, della malattia. Tuttavia, non è un saggio atteggiamento antropologico quello di confinare la malattia sotto la tassonomia delle sciagure, delle iatture. La malattia è una spia, un campanello d’allarme, allorquando il corpo e la mente invocano aiuto. Anche la malattia ha un senso, una dismisura, un passo, una ragione di vita. Epperò, il forte disagio, a volte, rinchiude, ferisce, scava fossati, può innalzare steccati di incomprensione e d’incomunicabilità. Ci si può rinserrare in isole di assoluto solipsismo. Sovente, sui volti di gente sofferente soffia il vento gelido della ghettizzazione.

Ma davvero la malattia mentale è una terra straniera, terra di nessuno? È davvero un porto aperto di barche turbolente in balia degli accadimenti, senza speranza? O, più verosimilmente, essa con la pazienza e con la propositiva abnegazione può divenire un luogo dell’incontro, del dialogo possibile, intricato, intrigante e serrato, dello scambio che nutre? Perché avere paura della malattia, che è sempre complessità e mal si presta a una rigida, smorta e stereotipata visione riduzionistica?

La malattia non deve mai allontanare, scostare, ingenerare vergogna o assurdi sensi di colpa, ma deve porre quesiti, perché essa è articolata come la vita. Chi è scosso dal dolore psichico percorre, con i ginocchi piagati e con l’ingegno aguzzo, una terra di duri sassi. In generale, posiamo osservare che, nei vari accadimenti ordinari di ciascuno di noi, trovano posto i più disparati vissuti. La gioia, il travaglio, l’amore, il disamore, il gusto del bello, la rabbia distruttiva e quella costruttiva, l’intimo piacere, il dispiacere, la felicità, la profonda prostrazione. Ogni uomo, nel corso della sua esistenza, può essere interessato da diversi e mutevoli momenti; ogni uomo può anche lambire le difficoltà, può finanche entrare e uscire dalla malattia psichica. E se non si stagna nel tormento, si può anche giungere ad una nuova definizione del proprio sé, sempre in dinamico divenire. Vorremmo davvero che ogni travagliosa stazione di confine potesse riparare i suoi dolenti argini. Vorremmo davvero che ogni essere umano potesse uscire all’aperto e respirare sorsi d’acqua fresca.

Qualche anno fa, l’attore e autore Ascanio Celestini portò in teatro e al cinema “Una ricerca sui manicomi”. Le arti possono aiutare a dare sollievo e donare ali immaginifiche, possono coadiuvare ad accorciare le distanze, a farci sentire tutti fratelli d’un identico destino, passeggeri a bordo d’una unica e umile carrozza di terza classe. Nella poesia di Alda Merini la follia viene modulata, smontata e rimontata, diventa verso sublime, musica celeste, ambrosia degli dei, cibo per gli uomini. La malattia va compresa a fondo, con gli strumenti della conoscenza partecipata, della coesione: essa non può diventare mai uno stigma, non deve escludere, né fare differenze. Chi ha conosciuto, ad esempio, e frequentato un giovane “disagiato” può capire con più amore le cose della vita, può comprendere meglio se stesso, gli altri e la società circostante. Nella realtà scissa, nei silenzi poetici, nelle considerazioni filosofiche d’un giovane “disagiato” c’ è la tribolazione, la carezza, la dolcezza del mondo.

Marcello Buttazzo, 14 novembre 2017