di Marcello Buttazzo –

Ci accontenteremo di saper passare
come l’animale che misteriosamente
scompare, si ritira dal mondo
e nella natura impara a morire

*
come l’animale ferito
e senza parola
ma con il verso solo
del suo dolore

Antonio Palumbo, nel 2020, ha pubblicato “La lunga partenza” (Musicaos Editore), un libro di versi e di storie umane. Antonio è attore e regista. Per molti anni, ha fatto parte della compagnia Astragali Teatro. Nel 2015, ha realizzato “Waiting For Job”, resistere è amare ancora, riscrittura originale ispirata alla figura di Giobbe, vincendo poi Strabismi Festival 2016.

Questa estate, presso Pollicini Verdi, a Lecce, ho assistito alla presentazione della sua silloge. Ci trovavamo in un giardino d’una scuola d’infanzia, in un pomeriggio inoltrato, vezzeggiati da un grande albero di Carrubo. Quel giorno, Antonio parlò dei suoi versi con apprezzabile affabilità, con una umiltà assoluta. Sfogliando e poi leggendo, a distanza di mesi, “La lunga partenza”, ho avuto l’impressione che nell’opera alcuni lemmi ritornino, si riverberino. Corpo, dolore, ferita. Arde passione, erompe, brucia, scalpita come i centomila cavalli a galoppo in questi versi esplosivi di lapilli di brace e d’amore. Si dispiega nell’abbraccio fra una parola e l’altra un corpo che si perde al volo, per distrazione, per disarmante assenza di vita, per forte comprensione del torace.

Il corpo è ferito, ma il sangue gemma il sogno del papavero nella terra. Il corpo è lacerato e la ferita è un buco in cui le dita cercano senza tregua. Il corpo, a un certo punto, pulsa, batte, percuote, si stacca dal “coro senza core” in cui si perde tutto. Il corpo è stravolto, ma non vinto. Il corpo gronda sangue, ma rimane in scena a mostrare l’eterno gioco dell’esistere. Ne “La lunga partenza” la parola non è mai in germe, non è mai silente, ma essa prorompe in tutta la sua forza evocativa. La parola che serve per descrivere, per narrare, la caduta e la risalita. La parola che è vertigine, subbuglio. La parola che è medicamento. La parola che è suono, melodia. In un distico interno alla silloge, Antonio riporta Giorgio Caproni, uno dei più grandi poeti lirici del Novecento. Sicuramente, il più musicale. E ritmici e armonici sono i versi de “La lunga partenza”. Palumbo, sovente, gioca con le parole, ma non per creare sterile e improduttivo artificio, bensì per strutturare solide fondamenta di scrittura. Le poesie della sua silloge non hanno titolo, possono essere lette come un continuum, come una ininterrotta stesura teatrale. In fondo, il poeta Palumbo non si separa mai dal suo prediletto mestiere di vivere. L’Autore è pronto alla lunga partenza. Lui schiude, si apre, riparte da una parte; dall’altra, ha impigliata la vita nell’arte…

città
degli alberi, Iannina
dagli altissimi castagni
e dalla resina degli anni
lungo le mura che guardano al lago
come ad un compagno libero di perdersi
e ritornare dove segretamente ancora parlano
i segreti, nell’oscurità di un sogno sincretico
in un cuore volatile e acquatico
nella corale delle anitre e tra le pietre
che si scoprono qua e là nella sua verdissima estate

Iannina, Iannina mia, bellissima
pena Iannina