AL “Bar Samarcanda” con Luigi Palazzo
di Marcello Buttazzo –
Il passato è
foglie d’autunno sotto ai piedi
odore di scantinato misto a sapone
e luce celeste riflessa in una vetrina.
Ha il sorriso sdentato del tempo
e il pensiero dei figli lontani.
La felicità si chiamava Lucia
e oggi ha il sole di una neonata.
Nel portafoglio conserva le foto
di Craxi e Mazzola
e nella tasca destra dei pantaloni
due caramelle, le chiavi di casa
e una manciata d’eterno
I versi della compartecipazione, della condivisione, dell’unità di intenti, del pane fraterno da spezzare con mani compagne. I versi della socialità e della solidarietà. Le parole che fioriscono di abbracci e sorrisi (a volte, anche dolceamari), le parole attese, le parole gialleggianti in canestri di sole. Le parole che si leggono pianamente, gradevolmente come carezze, per narrare storie, accadimenti. Le parole che sono stratagemmi per descrivere una galleria ricca e multiforme di esseri umani, con un’anima barbagliante d’amore. Uomini e donne, che fanno la Storia, non quella insignificante dei potenti, ma la storia marginale, la storia degli umili. Che vivono, amano, desiderano, soffrono, lottano, giocano la vita. Giocano l’amore. Questo anelito d’umana bellezza ho ritrovato in “Bar Samarcanda”, raccolta di liberi versi di Luigi Palazzo, giovane avvocato e docente a contratto presso l’Università del Salento. Palazzo ha firmato testi e regie teatrali. Ha esordito poeticamente, nel 2019, con “Non raccontarmi il cielo” (Manni Editori). Con alcuni inediti è stato finalista al Premio Fabrizio De André (XIX edizione). Ritorna alla poesia Luigi Palazzo con “Bar Samarcanda” (edito da Transeuropa), uscito nel mese di settembre 2021. Si respira nei versi una convincente freschezza lessicale, una costellazione di persone che si muovono, traversando il tempo e le stagioni. Il Bar Samarcanda non è un posto immaginifico, non è una abile trovata o una mera invenzione dell’autore. Il Bar Samarcanda è un luogo fisico e dell’anima. Vi possiamo trovare l’uomo col Panama, i sette ragazzi che spippettano e ambiscono alla luna, ebbri di felicità, con cognizioni che vanno da Marx a Cicciolina. Troviamo Giusy che indossa il bar come si beve un tè, Federico che porta all’amata una rosa comprata dai pakistani (“Dio li benedica”), il tipo che sorseggia una birra al limone, che rimanda al domani l’oggi e lo ieri. E ancora Damiano che vende pizzette in un buco su via Garibaldi, l’Alfredone, il Marchese che legge il giornale, il ladro gentiluomo, il viaggiatore inquieto. C’è amore diffuso, in questi versi. Tensione verso un mondo ideale, un universo di gente modesta, che percorre lo scenario della vita. C’è la vita, in questi versi. E sembra quasi di essere in un piccolo paese. Leggendo “Bar Samarcanda”è come addentrarsi in un bar dei nostri e ascoltare la cortesia d’un cliente che saluta sempre, anche quando lo scirocco addensa il midollo o perde lu Lecce. Nel bar dove i ragazzi sono avvezzi a guardare il sedere delle donne e dove gli uomini rincorrono attese, sogni, chimere. Ci sono nel libro di Palazzo rimandi musicali a Vecchioni, a Guccini, ai R.E.M, al “Clandestino” di Manu Chao. L’autore è molto attento agli sguardi, all’osservazione dettagliata dell’esistente. Ovviamente, la realtà effettiva viene mediata e modulata dal trasalimento interiore, dai palpiti dell’anima. Nel senso che “ Bar Samarcanda” non è affatto una descrizione meccanicistica e cronachistica d’un luogo ( il bar) deputato allo svago e al divertimento, al riposo. In “Bar Samarcanda” c’è poesia. Nel libro s’evidenzia la visione politica e umanitaria, direi socialista, di Luigi Palazzo. Del resto, già ampiamente palesata nella raccolta d’esordio “Non raccontarmi il cielo”. Il fulcro centrale e d’attenzione di Palazzo sono le persone modeste, che vivono trame d’esistenza dignitosa, nonostante le condizioni, a volte, d’indigenza economica. Luigi ama cantare gli ultimi, il popolo, con una penna delicata e leggera…
Moammed Sceab
al bar è lu moru
di giorno vende libri scritti da chissà chi
la sera accendini
per la fiammella dei racconti
sul passato.
Ieri ingegnere,
oggi rifugiato politico,
ora riflesso
nel cubetto di ghiaccio
d’un gin tonic.
Marcello Buttazzo
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