di Anna Rita Merico –

ALEX   EZRA  FORNARI
Qualcosa di naturale
Wojtek Edizioni, 2022

All’inizio è come scivolare lenti in un collo di bottiglia. Vetro spesso, verde, sensazione di liscio. Tutto descritto lento in un’infanzia di gesti pacati, routinari. Unica dea Shoshana, antenna di desideri, coscia lunga, una sola coscia a dire il vero. Un occhio infantile di quelli che acuti vivisezionano la realtà e la stendono a tappeto rendendola nera o bianca, senza pieghette. E si scende senza aggrappo nel collo liscio di bottiglia e le donne sono bellissime e gli uomini uomini. La musica, i libri, i quaderni, i giochi con le parole, le fisse, i sogni, la siciliana, le lacrime della madre, il fratello Elia. Si scende lenti lungo il collo e, nel primo slargo, la frattura che “lega” i fratelli, l’amore isolato come su un atollo per i genitori.

“Li amavo. Loro due. La somma che mi ha fatto quel che sono.”[1]

Il tempo: circolare, ritmato dalle figure genitoriali, ricerca di lavoro, la scuola elementare Hendrix, la classe è una quarta. Samuele scola giù alle differenziali. Aula nell’interrato, proprio come lo spazio del refettorio, classe mista, l’unica dell’Hendrix. Compare Dante e, con lui, il mondo è chiuso nella bottiglia, il salto narrativo esplode veloce e fluido, la scrittura inizia a martellare. Nella classe sono in undici: Pino, Cosimo, Andrea, Danilo, Davide, Federico, Cinzia, Paola, Rosanna, Anna, Apollonia tutti a condividere il nulla di una periferia urbana con l’industria al posto del campanile e la piazza: frullatore di vita che rende ogni cosa (assenza di colori, di tempo, di luce, di ritmi, i cieli brulli) qualcosa di naturale.

Samuele scrive, torna sempre indietro con la memoria, l’infanzia diventa asse centrale di telaio su cui abitare. Lungo la parete interna della bottiglia cola la scoperta dei corpi, Apollonia ampolla di desiderio, l’adolescenza appesa a fili nel vuoto del futuro, il cambio scuola, il buco sul braccio di Dario, le lacrime che sono più calde quando piangi a occhi chiusi.

La morte di Daniela, di Mauro. La scrittura di Alex tratteggia una scena da campo di concentramento con la neve che scende senza velocità e tutti fissi a guardare e Dio che s’assorbe nel nulla. L’amore fatto per la prima volta, i furti. Ogni imprevisto lascia crescere vita e morte che si stemperano l’una nell’altra, la vita è di frontiera sempre pronta a svanire eppure è lei che radica, radica, radica e batte il tempo del dolore, della ribellione muta, delle accettazioni. E Dante si svela tra le pagine accese a salti e rumori di adolescenze rubate. Compare il corpo ibrido, le assenze di normalità si mostrano in ogni respiro e chissà come sono le case dei ricchi. La scrittura di Fornari rapisce, vortica, si muove per salti morbidi. La scrittura delinea la realtà di una contemporaneità struggente guardata attraverso lo sguardo innocente di Samuele costretto a farci i conti e a crescerci dentro accompagnato dal padre spirituale della musica che spiegazza ogni evento. Si impone la dimensione del sesso per conoscere, il sesso per dirsi, il sesso perché parole non ce ne sono e tutto è qualcosa di naturale, ancora.

Una punk band: gli Haz Mat, inverni padani grigi e infiniti, Sara entra nelle vene come un ago sottile e liscio. La politica è una violenza oscillante tra i volti beceri di Hitler e Mussolini, la violenza un modo per dire le differenze, tutto sempre pronto a schizzare, mai nulla di cheto solo la scrittura lucida, nervina, attenta di Fornari. Scrittura lucida che entra nel funambolico di odori, emozioni, tratti fondi della vita senza infingimenti, è scrittura che dipana un realismo acceso che sembra iperrealismo in realtà, ne conserva fondo vitale e dolcezza di ritmo. Le fughe da non luoghi a non luoghi. La ricerca si palesa come slittamento da padri malati, alcolizzati, stranieri, padri dinanzi ai quali e per i quali definire le battaglie quelle in cui le trincee sono dentro appese al filo delle rabbie, dei dolori e Samuele guida perché la gente normale è tutta diversa ma tutta uguale.

E Samuele vuole portare via tutti sgusciando bagnato via tra viticci di musica, poesia, amore, sesso.

E Samuele indica una strada che non è droga e alcool.

E Samuele dirige gli snodi di storia accesa e la sirena della fabbrica che suona a orari fissi e i padri sventrati dai turni di lavoro e le madri secche, trasparenti, devastate dalla conta di denari che non bastano mai. La firma del primo contratto per gli Haz Mat.

I sogni, ondivaghi, entrano ed escono impuniti dalla testa visionaria di Samuel. Sogni, vento, visione sono pane di dialogo con Dio e Sara continua a suonare Chopin al pianoforte e a chiedere di Dante. E tutto è in perenne pericolo di sparizione come la realtà allucinata, come Mirna, come i gattini affogati e chiusi nella scatola in dono, fuori dalla porta di Samuele dentro i bidoni di una realtà sempre fuori da ogni possibile misura che non sia la sospensione. Bella Mirna: scende al fondo e risale. Decide per l’università e vuole salvare, medico come medico che l’ha salvata e i mondi sono separati e Fornari ce li mostra dirimpettai: il mondo normale e il mondo del dentro di mele guaste e Alex Ezra Fornari, da Maestro del Passaggio, ce li indica traghettandoci dall’uno all’altro con il piede del desiderio acceso e lo sguardo di Samuele tra le dita.

Samuele immette il germe del cambiamento ovunque. Samuele cerca sempre un fuori, un’alterità, una differenza. Samuele vuole fare scoppiare in frantumi la bottiglia, dal di dentro, da un eccesso di compressione, di rabbia quella che agisce sottintendendo l’odio mai nominato e, puntualmente, agito. Samuele sa come tenere  a bada la bestia.

Far male al corpo, far male il corpo lascia al male dentro di far meno male. E’ una logica tutta rivoltata che si mostra scrivendosi sui corpi e sul desiderio.

E se fosse possibile saltare la rete e uscire fuori dalla misera povertà? Quella rete spinata che separa le periferie dal centro. Quella rete che c’è anche se non si vede. Quella rete che sta al centro del cervello e che separa povertà e ricchezza. Quella rete fatta di cellule sfatte che dice il mondo e ti fa bonsai di te stesso.

Compare Monica. Samuele fa incursione nell’universo dei ricchi: plastica, vite finte, comparse e interni clonati. Il crescendo della curva esplode. Apollonia, invece, emerge dal passato. E poi, ancora e ancora, e ancora. E’ realtà che si accartoccia su sé. E’ pietra che sgretola. E’ romanzo scritto nella bava della contemporaneità. E’ contemporaneità che, con un unico gesto, implodesplode. E’ fine e catastrofe. E’ corpopensiero che vuole oltrepassamento. La capacità di Fornari di tenere insieme la struttura narrativa è potente, di aggressiva dolcezza nei cambi repentini, nelle dimensioni della memoria che torna ai soli, autentici luoghi possibili: quelli di un’infanzia-itaca da cui sfoderare volti e possibilità, le uniche. Eppure il largo è stato attraversato tutto, per intero. Il passato chiede pedaggio e nello srotolio della pellicola Fornari addensa la storia di Dante. Quel backstage avvenuto mentre Samuele mischiava insieme a Monica l’illusione di una vita altra scoprendola menzogna.

La storia si liquefa in un andamento in cui ricordi e possibilità sfilano. Il collo di bottiglia si ripopola. Il tentativo è l’emersione, l’uscita. Il rimbombo del cammino all’indietro svuota e risucchia. Rimettere insieme la classe tra le macerie di vissuti sconnessi intorno al motore del dolore e delle ustioni quelle che piagano irrimediabilmente anche le cicatrici mentre la realtà percola sudicia in qualche tubo bucato. Da dove giungono i destini? Come si fuoriesce da un destino? Ormai nulla più tiene.

Dal collo di bottiglia entraesce vapore doppio. Samuele ora incontra la bestia, nudo e dinanzi ad uno specchio la tocca. Giunta per fare i conti. E, di nuovo, in auto a viaggiare, a scoprire che nessuno ha obbligato a nulla ma che la bestia dentro ha guidato tutto inseguendo come pretendente che si muove come bomba a orologeria.

“…L’innaturale azione di comprimere se stessi. Erigere dighe e provocare disastri. Mandare in fusione il nocciolo della propria centrale nucleare e contaminare chi è nelle vicinanze. Non tutti si possono permettere il gioco della sepoltura del sé…”[2]

La civiltà iniziata con semi interrati di cui seguire lo spuntare dalla terra. Interrare e non avere cura?

Il labirinto non sta più fuori s’è tutto seduto dentro. Al capolinea torna la musica, l’andare, l’amore strappato. E’ un’intera vita fatta di vite che si scuciono e si dissipano l’una nell’altra. E’ scrittura calcata nell’oggi. E’ periferia spalmata nel dentro delle ossa. E’ lente d’ingrandimento sulla nostra mutazione antropologica. E’ qualcosa di naturale in un nuovo spaesante che chiede consapevolezza e diverso senso del viaggio nelle combinazioni multiple della domanda sul senso dell’esistenza, oggi.


[1] Alex Ezra Fornari Qualcosa di naturale, Wojtek ed. 2022, pg 20

[2] ivi pg 286