La scrittura per r-esistere
di Marcello Buttazzo –
La vita è viaggio, cammino piano e malagevole, da praticare con lo spirito desto. La vita ci conduce su terreni conosciuti e su quelli inesplorati dell’altrove. Mediante lo strumento provvidenziale della scrittura possiamo compiere percorsi di vario tipo, possiamo calpestare selciati di parole. Lo scrittore e poeta Osvaldo Piliego, nel suo nuovo libro di versi “Bianchi Venezia” (Collettiva edizioni indipendenti), uscito da pochissimo (marzo 2024), affronta un viaggio introspettivo e conoscitivo a bordo della sua bicicletta Bianchi Venezia. Lecce è sovente presente nei suoi scritti (anche in prosa). Una città dell’anima da traversare con le illusioni, i sogni, le reminiscenze, gli inganni, gli incanti, le disillusioni, gli scontenti, la gioia. Una città di realtà effettuali minimalistiche, nido e tana, ricettacolo terminale di persone indocili. Senz’altro un uomo irrequieto è Osvaldo, che a bordo della sua bici osserva paesaggi, vede cose, vive i respiri della gente, con uno sguardo lucido. Il poeta scruta, medita, sceglie, s’aggira con il suo bagaglio passionale per la città, per le marine. Nella nota di lettura Margherita Macrì scrive: “Questo libro è quasi un esercizio di resistenza attraverso la parola, una lotta contro l’oblio dell’ordinario, che eleva il vedere a metodologia esistenziale”.
Piliego maneggia con acutezza le parole, edifica con esse tessere di amore e di disamore. Non impiega mai la scrittura per ferire o per innalzare steccati d’incomunicabilità. A volte, balena nei suoi versi una velata ironia, sempre condotta nei meati d’uno smisurato amore. Piliego è un poeta, uno scrittore veramente d’amore, nell’accezione più vasta e più esaustiva che si possa dare a questo termine. Leggendo i suoi versi avvertiamo epidermicamente l’attaccamento alla vita. Fin dalle prime battute, il poeta descrive la sua mappa di sentimento. “Passo da Mauro e Piero/ nel fondo di Verri/per una parola nuova/e pratico il silenzio/insieme a Dario/una volta al bar./Mi piace questo tempo/del dolore che sedimenta./”Tanti di noi, in questi anni, hanno trovato una casa d’accoglienza presso il Fondo Verri. Tanti di noi hanno potuto abbracciare Mauro Marino e Piero Rapanà, fratelli di condivisione. Mi soffermerei, un attimo, sul “dolore che sedimenta”. La raccolta di poesie “Bianchi Venezia” non è solo un viaggio gioviale, serafico. Tutt’altro. Fra i versi si può intuire tutta la melanconia dell’autore, le sue tristezze, le mestizie. Che, però, lui da vero artista della vita sa mutuare, lasciando appunto sedimentare il dolore, facendo scendere nel fondo del fondo. Analizzandolo, scomponendolo, trasformandolo.
“Bianchi Venezia” è un cammino a piedi nudi su un versante geografico, cronologico, temporale. Osvaldo, come tanti giovani salentini, già diversi anni fa aveva tutte le possibilità umane e intellettive per abbandonare la sua terra, la sua Lecce. Ma ha preferito rimanere. “Se avessi avuto fretta/non sarei rimasto qui,/dove tutta la città/è una sola pedalata/e la gente imbianca insieme”. Tanti giovani scappano dal Salento, in quest’era di migrazioni anche intellettuali. Osvaldo, come altri di noi, è rimasto. “Io resto fermo e guardo”. Lui permane nei posti in cui è stato bene, nei luoghi di passaggio dove seminare un ricordo o dimenticare qualcosa. Lui rimane nella sua terra, che gli ha insegnato la devozione per la parola e per la musica, sua diletta compagna di vita. Restare è coraggioso, ma anche doloroso. La filosofia della restanza comporta un legame antico con le zolle della propria terra, ma comprende altresì la capacità di sapersi sradicare, all’occorrenza.
Il poeta guarda. Al suo occhio vigile non sfuggono dettagli, che occhi più sventati non riescono a cogliere. “Bianchi Venezia” è una sorta di diario di vita intima, sentimentale, esistenziale. Non è un breviario salentino, perché Osvaldo sa scendere nelle pieghe più riposte di tutti noi. È poesia universale, la sua. Poesia che sa gettare ponti di condivisione, di comunione, di comunanza. Poesia vera. Qualche volta Piliego indulge ad una andatura lievemente prosastica. Epperò, numerose liriche impiegano il classico verso breve, secondo i dettami della più moderna poesia. “Bianchi Venezia” è un libro molto intenso, in cui campeggiano bellezza umana e giovinezza e fragilità e irrequietudine. “Sono fragile, lo sai./Ho un costato fatto di crepe,/sono spiragli di abisso/da cui passa tutto,/il male che mi fate/e il bene che vi voglio./”, scrive Piliego. Ampi spazi nel libro ha la reminiscenza con racconti dell’infanzia e della giovinezza. Possiamo “vedere” il poeta fanciullo al secondo piano con i treni a due passi e la vita adulta alle porte. Piliego sa evocare gli amori con delicatezza e discrezione. Con profondità e con dolcezza canta: “Conobbi il primo amore/e imparai l’addio”. Ed ancora: “Sento ancora il sangue che scorre/più veloce al mattino/quando passi tu”. Vi sono nella silloge lampi di assoluto nitore, come quando l’autore narra del tempo dei capperi, del sale grosso e delle mani di nonna. Infine, vorremmo dire brevissimamente del concetto di radicamento. Il poeta è strettamente legato alla sua Lecce, ma riesce anche ad allontanarsi. A un certo punto, lo troviamo a Roma, fra il murale di Pasolini, lo vediamo al Pigneto. A Roma “è un ritorno necessario/dove tu non ci sei più”. “È un ritorno necessario/dove di te qualcosa resta.” Possiamo affermare che Osvaldo Piliego con “Bianchi Venezia” compia una traversata poetica e filosofica, riverberando schegge di vissuti, di memoria, di presente, sul crinale del tempo.
Marcello Buttazzo
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