di Marcello Buttazzo –

Desidero tornare là
nei campi verdi
che erano stati arati
per seminarci la storia del mio tempo.
O te che ho amata, avrei voluto dirti
che tanto tempo fa sono partito
lasciandomi alle spalle il mio paese,
con una sola spiga di grano nella mano
e l’anima mai spenta.

Leggere i versi delicati di Fuad Rifka è come compiere un viaggio per i selciati della vita, oltrepassando steccati e barriere, approdando in campi di giallo amba, di grano fiorente. Fuad Rifka, uno dei più grandi poeti contemporanei, erede dell’antica tradizione meditativa orientale, uno dei maggiori innovatori della poesia araba, è nato nel 1930 in un piccolo villaggio della Siria, è emigrato in giovane età a Beirut, dove è vissuto come cittadino libanese, e dove è morto nel 2011.  Grande conoscitore della poesia tedesca, ha tradotto in arabo, tra gli altri, Goethe, Novalis, Holderlin, Rilke. “L’ultima parola sul pane” (premio Mediterraneo 2008) è l’unico libro attualmente disponibile in traduzione italiana di Rifka. A gennaio 2022, questo prezioso libro di ampia ariosità è stato pubblicato da AnimaMUndi Edizioni, a cura di Franca Mancinelli e Rossana Abis, con traduzione di Piero Bruno, Adnan Haydar, Paolo Ruffilli e Aziz Shihab, con un’introduzione di Tomaso Tiddia, con tre ritratti fotografici di Dino Ignani e con un’intervista di Ottavio Rossani. “L’ultima parola sul pane” è un’ipotenusa di autenticità, di verità, bordeggiata lungo i crinali della semplicità, della linearità del linguaggio, profondo, antropologicamente vivido d’amore. Rikfa evoca i suoi vissuti e quelli di altri esseri umani, si rivolge ai cittadini di qualsiasi gruppo etnico, senza alcuna complicanza o inficiazione ideologica. “La poesia è come il pane: semplice e sacra. È un filo elettrico in grado di connetterci con l’infinito, con la natura, con l’anima del mondo”, sostiene il poeta. La poesia è comunanza, è scintilla d’eterno: grazie ad essa respirano il fiato del mondo, il vigore del sole dio di fuoco, le lacrime delle centomila tempeste. La poesia è bellezza panica, strabilio umano, è Natura che si dispiega e si mostra in tutto il suo splendore:

Nelle città di ferro e di cemento
brillano solitari pochi germogli,
maturano più solitari i frutti,
vanno da soli i merli,
vigila la neve in solitudine.

Nelle città dei numeri
non c’è nessuno alla finestra
né un corpo si appoggia all’altro.

Nell’introduzione Tomaso Tiddia, a un certo punto scrive: “La sua poesia è un bagno sanante nell’oblio, il nero e il verde dominano, leggendo ci si sente rinnovati come da bambini dopo la lettura di una fiaba. Ogni suo verso è un battesimo, è un riaffiorare. Il mistero e l’indicibile sono ogni istante della lettura dei suoi testi e il lettore s’imbatte in uno dei pochissimi poeti che sono la poesia stessa e i poeti tutti”. Rossana Abis, che ha avuto la fortuna di incontrare Rifka, è rimasta colpita dall’intensità dei suoi occhi, dalla sua aura di umiltà, assieme ad una autorevolezza da profeta dotato di potere augurale: “Poesia nella poesia era lo sguardo di Fuad Rifka”.  Il poeta aveva ereditato il suo istinto contemplativo dal cristianesimo ortodosso e dal misticismo sufi. I suoi versi sono dotati di una fortissima spiritualità, che è pregante e va al di là di qualsivoglia confessione religiosa. “L’ultima parola sul pane” è un testo altamente lirico, che scorre con il nitore e la purezza adamantina del diamante, con l’amore d’un poeta che ha conosciuto storie, vicende, accadimenti, e ha saputo creare un canto armonico. Un canto per tutti gli uomini. La poesia è madre che sa accogliere le genti. I versi di Rifka sono anche un inno alla Terra, signora dei corpi, che s’apre e sorge. Come una spiga il cuore si piega, come una spiga tende l’orecchio. Sitibondo d’amore, il poeta può urlare che sempre ogni momento gli occhi vogliono il sole, senza mai saziarsi. Particolarmente interessante è l’intervista, contenuta nel libro, di Ottavio Rossani al poeta, apparsa dapprima nella rubrica di poesia del blog del “Corriere della Sera”, il 16 aprile 2008. Balenano parole che sono ricorrenti visioni del poeta: sogno, libertà, forza della lingua, forza della poesia. Il sogno- afferma Rifka- è il grande maestro per tutti noi, anche se non gli diamo retta. Il poeta sente intimamente la poesia, tanto da asserire che “il poeta, come un vecchio mistico sufi, dal sorgere del sole ama la poesia e resta lì da solo: per quarant’anni dentro la capanna, pregando e digiunando e salmodiando cantici”. Rikfa, che ha letto e tradotto Holderlin, Rilke, Goethe, ha la certezza che noi umani siamo tutti uguali, arabi, europei, cristiani o musulmani. “Profondamente, intimamente uguali”. “L’ultima parola sul pane” contiene altri assunti paradigmatici relativi al tempo, al viaggio. Gli spostamenti delle popolazioni sono una costante dei flussi dei viventi. Lo sapeva benissimo Rifka, nato in un piccolo villaggio della Siria ed emigrato con i suoi genitori in Libano per ragioni di sopravvivenza e di lavoro.

La sua poesia col tempo
si consuma,
diventa mormorio,
traccia e segno…
e, nelle vene dell’alloro,
soffio di vento.

L’uccello del cardo e la ciotola della sorgente
leggono quel segno.

                                   Marcello Buttazzo