di Elio Ria

Attese, domande, concessioni, speranze, attorno alle quali si dispongono i versi di Marcello Buttazzo in “E L’ALBA?”, Manni editore.

Ritagli reali e fittizi di un’esistenza ferita e rincorsa, ma anche vita desiderata, di un giorno che va oltre l’orizzonte dai contenuti timidamente nostalgici nel potere del fare poetico. Buttazzo spiega a sé stesso le cose che lo riguardano, poi fa campo di attenzioni soprattutto intese a precisare e a parlare per la poesia. È alchimista delle parole che trasforma – attraverso un meccanismo costruito in una particolare maniera di eleganza linguistica – in un concentrato di colori, d’immagini, di visioni oniriche, ad esempio: virtù di sogno, laconico Novembre, virente verziere, cicale pazze canterine, agile pioggia, papavero insanguinato. Metafore sorprendenti anche per lucidità filosofica: «L’orologio dell’alba/porta la voce/d’un bimbo/»; «Una donna cortese avvolge la sera/».

Buttazzo rivela una poetica interessante per la sua capacità di ordinare in armonia il proprio gentile sentire, dove non si riscontrano livore, rancore, frustrazione, ma una pacata accettazione delle condizioni del proprio vivere in una prospettiva di capovolgimento dello stesso: «Ma non è più l’ora,/anima amara,/di lacrime di prostrazione/»; «Una rotondissima luna/d’albume/mi spia. E nella/mente fiammeggia/un petalo di vermiglia/speranza/». Il poeta aspetta l’alba nel silenzio della notte stridente, con onde di quiete in un moto di chiarore che illumina l’anima e lenisce le sofferenze. Narra il sentimento depurato dalle risonanze della prosa e asciugato nell’umiltà dell’ispirazione; si duole delle cose del passato; si rallegra delle minuzie della natura che gli appaiono con innocenza anche in un freddo dicembre con una pioggia martellante che scandisce il tempo sofferto che non forgia momenti di magnificenza delle ore e trascura il cuore del poeta. Non chiede; sussurra dolcemente comprensione: «Madre,/non ti curare/ del mio tormento./ […] Il pallore del mio volto/è un dolce biancore/sospeso alle nubi sorgive dell’alba./. Dà una definizione suggestiva del tempo: «Il tempo/ è quel che resta/ del giorno,/infinita attesa/della rondine di mare/che più non torna./ Il tempo/è l’angelo lontano,/che giorno notte trasvola/nel suo altrove./Io sento sempre il suo riverbero,/il suo profumo d’eterno./

In ogni verso il contenuto semantico della fabula trasfigura la concezione filosofica del tema dell’esistenza, della propria, rapportata alla continuità tradizionale e quotidiana degli eventi che scandiscono con esiti diversi la riflessione metafisica. I topoi consistono di due elementi: un motivo tradizionale che riguarda il poeta nella sua ricerca di interpretazione e valutazione delle proprie esigenze esistenziali; e la ricerca della saggezza o la vittoria sull’inferno dei giorni che non traducono nessun refrigerio di speranza e di benessere interiore. Il materiale di cui dispone Buttazzo è tutto nello scrigno dell’indicibile, del mistero della vita; dei quali seppure accetta l’inevitabile segnatura del destino reclama poi con voce tiepida un divenire di alba nuova, fuori da ogni schema temporale, eterna come il paradiso in cui risuoni la voce dell’umanità. Desiderio che s’installa nel sogno e converge inevitabilmente nelle pieghe della realtà in una fragile struttura di speranza che riafferma l’incertezza del divenire. Le parole di Buttazzo -lavorate a sbalzo, battute e ribattute affinché si modellino in tracce di luce di arcobaleni, caramellate da termini inusuali – conferiscono ai versi un suono di dolcezza che nelle sequenze delle strofe si dissolvono in amare conclusioni come a significare che niente è come appare e di nient’altro si vive di apparenze.

Il cielo del poeta è un cielo dove le stelle mostrano un volto diverso rispetto a quello che egli vede. E l’alba? Già quale alba. E c’è un’alba? E se c’è perché non si manifesta? Cos’è dunque questa storia dell’alba che non si fa vedere e attende un segnale per rivelarsi? Quante albe per ognuno? Quale alba?

Si può immaginare che il poeta abbia l’abitudine di andare ogni mattina a spiare l’alba nel suo logico insediamento nel cielo, e aspetti di vederne una mai sorta in un giorno fortunato, fuori da ogni regola astronomica e di geometria dell’eternità, respirando avidamente il giorno inedito, bevendo aria di felicità, spingendosi un po’ più verso l’interno di un’aurora di ansiosa speranza. Nel frattempo rimane ad ascoltare i suoni di quelle albe ripetute ad ogni evenienza ed esibite dalla pigrizia della natura. E l’alba? Si chiede il poeta, come ad intenderne l’assenza in un giorno qualunque, dove la sua presenza non è accertata e ritarda luce. Domanda così semplice che richiede però una spiegazione complessa e articolata nelle motivazioni di esclusione di un ciclo naturale quando la notte s’inabissa e cade in tentacoli di silenzio.

Forse la domanda del poeta è volta a significarne solamente l’assenza senza peraltro formulare nessuna tesi che la giustifichi, volgendo l’attenzione verso quella notte dove c’è sempre un perduto amore, un nuovo sole. Forse! E l’alba? È una domanda che non si conclude, evolve in altre infinite domande, risucchiata in un labirinto di silenzio che si estende in un luogo… oltre il confine di ogni alba.

Elio Ria