di Cesare Minutello –

Accade a volte che comete appaiano nelle stanze in penombra della poesia italiana, a dare speranza in una svolta concreta verso nuove prospettive, e accade pure che non si trasformino in stelle dalla luce permanente, per avaro destino o per propria scelta di scivolare nel buio totale. Caterina Saviane, figlia del noto Sergio, giornalista de L’Espresso e tra i fondatori de Il male, a diciotto anni, nel 1978, era già prepotentemente sul sentiero della notorietà e della ribalta letteraria: aveva pubblicato in Feltrinelli il romanzo “Ore perse. Vivere a sedici anni”, nella collana Franchi Narratori, raggiungendo un successo inaspettato quanto meritato, ben cinque edizioni nel primo anno e la traduzione in diversi paesi nel mondo, un caso letterario, insomma, oggi inspiegabilmente dimenticato (qui un significativo frammento: “E sul cuscino bagnato chiudo gli occhi dimenticando ciò che ho perso e che abbiamo perso, ormai, dimenticando tutti i ricordi più belli e più brutti. Ho speranza di sognare. Adesso ho capito tutto. Quando sono sveglia, insieme con voi, russo come un ghiro.”).


Ma è della poesia che non riesce a fare a meno, quella poesia che è tutt’uno con la vita, quella che, da innata, coabita nel petto e per questo è sinonimo di rischio, rischio dal quale Caterina non riesce a distaccarsi, anzi lo affronta stringendo con essa un patto, pur sapendo che la posta in gioco è l’esistenza stessa, pur sapendo che la poesia, così vissuta, può importare anche l’arte dei tragici commiati.
Capace di “un movimento ciclonico incontenibile”, come di lei scrisse Andrea Zanzotto, era dotata di un talento inesauribile costantemente proteso al superamento di ogni barriera linguistica, al raggiungimento di traguardi non convenzionali, lontani dalla norma, alla ricerca della verità più profonda della parola, anche in senso ritmico e sonoro, puntando al massimo del possibile di significati e significanti, anzi mirando costantemente all’impossibile, nel continuo fondere e confondere spavalderia lessicale ed ereticità espressiva, come elica che solca i mari spumeggianti di euforicità e dolore, di entusiastica indecenza e desolate solitudini, lirismi (“raccontami solo la bellezza/ poiché fra tutti i dolori/ non c’è simile solitudine al mondo”), parlato (“il filo del discorso”, “di palo in frasca”) e battute (“bresa della Pastiglia”, “occhi stuprofatti”). Fedele fino in fondo, come scrisse, a ciò che aveva stretto con sé stessa, cioè «un patto più forte di quello con il diavolo: scrivere e ancora scrivere, fino all’esaurimento».
In realtà ci ha lasciato, oltre al romanzo, solo un gruppo di poesie, qualcuna pubblicata nel 1985 nella rivista “Il lettore di provincia”, le rimanenti selezionate nella raccolta “appènna ammattìta”, edita da Nottetempo, in Roma, nel 2015. Le altre inedite e sconosciute ai più.

Schiacciando le banalità borghesi, la mancanza di coraggio delle convenzioni, il limbo del comune sopravvivere, Saviane si è misurata con gli abissi, sospesa sul filo di altezze non alla portata di tutti. Col tempo, oltre ai virtuosismi che le permettevano di scovare il nonsense di parole nuove (sballantine’s, sordiso, illuminèmmo, r’esisto, clan destine, pin occhio) ed ai neologismi (appioggiarsi, ancorà, vagonante, inesistere) la sua lingua comincia a dare sempre più spazio al personale, al vissuto, alla rabbia, dando luce alle croci delle esperienze e comincia a parlare di morte, aggrappandosi all’esistenza, così segnata dall’inquietudine di crescere in un mondo troppo lento al cospetto della propria irrefrenabile voglia di andare oltre, un’inquietudine che via via si trasforma incurabilmente in male, l’inesorabile vortice del “male di vivere”.
Negli ultimi difficili anni, tormentatissimi nel voler ostinatamente affrontare l’indicibile, è vissuta tra la casa del padre (che ricorda così l’ultimo anno della figlia: «Dormivo vestito, di notte andavo per caserme e me la riportavo a casa, fumava 120 sigarette al giorno, e se non erano sigarette era qualcosa di peggio.»), le abitazioni di alcuni amici ed i ricoveri in clinica. A trentuno anni, nel marzo del 1991, smise di saltare tra le pieghe e le piaghe del mondo. Leggerla oggi ci fa comprendere quanto i suoi versi siano significativamente originali e quanto sicuramente sarebbe stata in grado di regalare, in termini di unicità e nuove prospettive, alla poesia ed alla prosa.

Appénna-ammattìta

– spezzando con macchina per – da scrivere –
smarrito il ritmo della separazione
perduto ho io [il filo del discorso
– filologico, filo logico
fili d’erba, smeraldo e di tram
trancio d’arancio –
di sempre in mai
di palo in frasca
in tasca mi toccaccio il filòs greco
e che strage sia del tempo d’ora.
Perciò:
toccaccio il sordìso della conversazione
l’azzurro-uomo degl’occhi tuoi
perché la notte ci alzavamo
a mentire a dir bugìe
che ci gridammo
“pazzi!” nel sentire gioia
del sòrdido sprecare il sonno
giunse:
sfatti di “ero brava” – come certi vecchi di sé –
in memoria dell’eburnea pista
– ballo’s di sballantine’s –
– facile piacere parlare altrove –
e unici illuminémmo esser pensànti:
coro di pensieri di cervelli
asma d’idee,
ci punse il core degli uccelli.
Alba e tramonto e primavera desiderammo primi
il sonno ancorà,
ancòra di salvezza
già assenza di non [tornare quivi].

*
[Dài, ti prego, tiénimi compagnia]
Dài, ti prego, tiénimi compagnia,
stanotte – metti che io muoia –
stanotte – che sia l’ultima notte
la più bella? – che muoia.

– le poesie sono in “appénna ammarrìta”, Nottetempo, Roma, 2015