di Anna Rita Nutricati –

Il senso comune reputa la saggezza non una dote immanente, insita nell’uomo, in quanto tale, ma, piuttosto, il faticoso e a tratti fortuito rinvenimento sotto i colpi martellanti degli anni e delle annesse sventure; o il problematico frutto di un’intensa e ruminante ricerca che,nella pacatezza di riflessioni e di traguardi ideali,prova a riequilibrare la vita, correggendone di essa le storture e le dissonanze, altrimenti insopportabili.
Nulla di più lontano dalla saggezza è la predisposizione senziente, irriflessa e primitiva, mentalmente dormiente, ma galvanizzata da travolgenti e sensualistiche pulsioni.
Eppure accade, spesso, che la folgorazione spirituale o i guizzi intuitivi affluiscono in quel fomento spontaneo ed incolto che percorre e vivacizza la veste corporea. Un sottinteso patto unifica, allora, la tanto temperata saggezza alla folle incontinenza dei sensi.
Di questo taciuto e lassista sodalizio sembra esserne consapevole il poeta Cosimo Russo, che riconosce, alla profanità delle membra, la possibilità di un appagante e limpido contatto ierofanico.

Plenilunio

I saggi
con viso da bambini godevano
illuminati il plenilunio
e la terra si faceva
carezza da metamorfosi.

Nella pienezza lunare, il poeta si sofferma a catturare il volto rischiarato e rapito dei saggi che felici si riappropriano di una giovevole quanto inconsueta aria puerile.
La pleiade di savi, fuoriuscita dalla caterva di principi generali, pare che sia tutta processionalmente inalveata verso una apoteosi lunare che pareggia, per pienezza simbolica, con quella teoretica. Ovvero, probabilmente, avveduti del tempo sottratto alla catarsi sensoriale, i sapienti hanno preferito abdicare all’ufficio dispensatorio di consigli per impiegarsi in un genuino appostamento selenico.
La sorpresa naturalistica del plenilunio rappresenta il locus misteriosofico della trasfigurazione. D’altronde, la memoria popolare riferisce di quello strano potere della luna piena di sortire arcane e, spesso, inquietanti trasmigrazioni, in un attrattivo amalgama di forme volubili ed involontarie.
Nella poesia, Plenilunio, il cambio fisionomico è rassicurante, non esula l’umanità, ma semmai la rigenera, riportandola all’iniziale lasso vitale, all’infanzia perduta di cui si rimpiangono gli inconsulti impeti e le strabilianti simbiosi.
Se le induzioni dottrinali ottenebrano la gioia della scoperta in una ripetitiva precettistica, le fanciullesche aderenze alla realtà fenomenica consentono l’istantanea sintonia tra le vibrazioni corporee e la beatificante sospensione del pensiero.
L’intelligibilità empirica della percezione diventa la possibile risoluzione alle incertezze della assiologia che, alle prese con un giusto assolutamente giusto, finisce per evaporare nel vuoto del relativismo.
L’uomo culturale che diffida del valore cognitivo dell’ignoranza, e che ritiene, pressoché, doveroso innestare il mondo sulle sue arzigogolate e provvisorie riflessioni, è disabituato alla immediatezza speculativa dell’ascolto e della visione.
Nella notte dei mutamenti, è bene notare l’utilizzo dei due verbi “godere” ed “illuminare”,quest’ultimo con funzione aggettivale. Essi accostati subiscono una sorta di migrazione semantica: il primo dalla sensuale finitura finisce per esaltare il piacere intellettuale; il secondo di taglio realistico-descrittivo si carica di un rimando retorico-figurativo. La loro vicinanza sintattica (godevano/illuminati) è l’indizio evidente di una complicità, ovvero, di una presa di “incoscienza”che non esclude, più, nessuna porzione dell’essere.
La ricerca di Russo e dei suoi “saggi” inizia e si conclude con uno sguardo infinito, in direzione della luna, che abbandonata, per la notte, la gravosa gobba si riscatta della pregressa disattenzione, pervadendo il cielo di una bellezza completa e perfetta.

Nel nuovo panorama etico, anche, la terra si ammorbidisce.

Il muro insondabile di Giorgio Caproni diventa levità carezzevole che trasmuta da entità in altre indefinibili entità, secondo una variabilità che assurge a valore sapienziale, a meccanismo liberatorio. D’altronde la cellulare incorporazione nel diverso rende l’estraneità una identità riconoscitiva a cui non può mancare l’affezione simpatetica,visto che l’alterità è,solo,una delle tante e casuali combinazioni dell’io.
La saggezza, per un attimo, o meglio per una notte, elude la filosofia e il corredo delle raccomandazioni mantiche.
Tutto è scopertamente vicino e reale nella sintonia silenziosa dei saggi che sanno, ancora, contemplare esterrefatti lo spettacolo lunare.

Come ha magistralmente scritto Fernando Pessoa nel Il mio sguardo è nitido come un girasole:

[…]
Io non ho filosofia:ho i sensi.
Se parlo della Natura,non è perché
sappia ciò che è,
ma perché l’amo, e l’amo per questo
perché chi ama non sa mai quello
che ama,
né sa perché ama,né cosa sia
amare…
Amare è l’eterna innocenza,
e l’unica innocenza è non pensare.

Le tassonomie didattiche fugano dinanzi alla umanizzazione di un sentire puro, senza strategie o arroganti finalità di discernimento.
La soggettività pessoana girovagante nei suoi labirintici dilemmi non solo raccoglie con transigenza la sofferta consapevolezza del limite,ma affidandosi al medium dei sensi finisce per imparadisarsi, scambiando per trionfale vittoria la soluzione di pace.
La lizza tra scienza ed arte sgretola pian piano la sua sostenibilità teorica per via di un lirismo avventuriero che ravvicina il travaglio del dotto al riposo, in parte,consolatorio del poeta.

Salvatore Toma crea un perfetto incastro compensatorio tra sovrapposizioni identitarie e straniamenti, tra affinità attitudinali ed inacidite bizzarrie.
L’incollatura tra il ministrare positivistico del mondo e il surrealismo prelogico salta,di continuo, provocando nel lettore lo stesso finale rabbuffamento di una ben congegnata beffa concettuale:

Il poeta è uno scienziato
coi piedi sulla terra,
sulla luna c’è andato
da appena nato.

Il poeta è un uomo
un poco morto
e conosce cose orrende
chissà comeper questo ride di voi,
di tutti voi.

Con la prima asserzione copulativa il tramestare tra arte e scienza pare condurre ad un nuovo ordine in cui il vezzeggiamento lirico della parola si adegua alla prassi della epistemologia fenomenica. Il poeta, infatti,salda la verità ad un fermo rigorismo pragmatico. Stanziatosi “coi piedi sulla terra ne indaga i segreti senza strabordi idealistici o elegiaci arieggiamenti.

Ma la sorpresa analogica dura ben poco, ribaltandosi in strappo, in contrapposizione il poeta come soggetto di una misterica filiazione ha già sporto la sua spiritualità nell’alone lunare.
Tale sdoppiato patrocinio non rappresenta la maturazione di un bisogno, vagamente, esoterico, bensì il delicato frutto di un parto siderale,di una fantasmatica vocazione all’’altrove: “sulla luna c’è andato/ da appena nato”.
Poi il tono si incupisce come ad anticipare la resa e Toma intraprende la discesa introiettando, lentamente,come la lama tremolante di un coltello,la tribolata investitura:“il poeta è un uomo/ un poco morto”. La litote, di cui l’avverbio costituisce il perno costruttivo,attenua.con l’ironia la tragicità della alienazione,dell’abbandono dai viventi. Ma, ancora, una volta a dispetto di fievoli aspettative e di dolorose dimissioni si scatena lo spregio, la condanna infernale. Il poeta, dall’orlo di una mutila esistenza, inveisce sulla umanità,sul suo peggio, e la trafigge attraverso l’acume interiore di chi sa riconoscere il male.

Così l’irrefrenabile poeta rovescia con veemenza il palcoscenico e cambia il suo ruolo: da saltimbanco dell’anima, come si definiva il grande Palazzeschi, diventa lo spettatore gaudioso e sprezzante delle turpi acrobazie umane. Ride sardonico sulla plenaria immanità della platea, e con il piglio inamovibile di un fato vendicatore non concede né salvazioni né eccezioni.
Il verso finale “di tutti voi” sembra trattenere, all’istante, la mano di chi fintamente trasecolato rinnega il peccato, imputandolo ipocritamente ad altre coscienze, meno che alla sua.
La triade gnoseologica terra, luna, uomo delinea una sorta di triangolazione. Nel ripercorrerla il poeta accende il suo implacabile e, a tratti, mostruoso sentire: il tutto tonfa in una sfacciata e menzognera fabula esistenziale.