di Marcello Buttazzo –

Sempre aspettammo l’alba. Sempre l’agognammo. Dopo la lunga e interminabile notte, i primi lucori del giorno furono una liberazione. La speranza d’un atteso tenue barbaglio s’avverava, dopo aver sofferto a lungo le brume della noncuranza. La notte era stata crudele, spesa sulle chine della inconcludente reminiscenza. Il ricordo, se è dolce, val la pena di coltivarlo. Ma se esso è solo travaglio, è produttivo lasciarlo scivolare negli scantinati senza fondo dell’oblio. Sempre aspettammo l’alba, i suoi nivei chiarori, che sono ancora il più intricato paesaggio da navigare. Come sosteneva lo scrittore Aldo De Francesco, più di quindici anni fa, l’alba è tensione dell’anima, è promessa del giorno, promessa della vita. “Il corso ulteriore dell’esistenza è poi la battaglia aspra della vita, e la battaglia acre, a volte, dell’amore”. L’alba è davvero palpito e trasalimento, in essa si cela ciò che verrà. Si cela e poi si rende manifesto. L’alba è davvero promessa della vita. La vita con le sue cadute e con le sue risalite, con i lampi chiari e con le inevitabili zone d’ombra. Non è una passeggiata la vita, è una battaglia acre. Proprio come l’amore. L’amore non è uno scherzo, non è un gioco di dadi. È la faccenda più seria del mondo. L’alba ritorna sempre, dopo la notte inclemente. Arthur Rimbaud nell’alba assimilava il presagio e la lotta, il preannuncio e l’esito. Scrive Rimbaud: “Alba di giugno battagliera”; “Alle quattro di mattino in estate”; “L’alba dorata e la sera rabbrividente…”; “Ho abbracciato l’alba d’estate”; “L’alba estiva ridesta le foglie e i vapori…”; “In una bella mattina, presso un popolo dolcissimo”. Ancora oggi ricordo nell’alba la musa brindisina, che mi destò alla vita dopo un periodo infinito di impasse. A lei donai le mie virtù di sogno, le ansie palpitanti, la carità di suono. Timorosa era la luna errante nascosta dietro coltri che non riuscivo a comprendere. Trepidante il mio cuore rosso marezzato. A lei, la musa che veniva dal mare, ho donato le mie incertezze, le stagioni inquiete, il sangue imprigionato. La vita con lei era rincorsa, gioia, ebbrezza. Dimenticavo solo con lei l’esistenza di ferite, l’esistenza grama, fiato spento, cuore graffiato, urlo di gabbiano. Con la musa brindisina l’esistenza di colpo e d’incanto diveniva desiderata, virente verziere, melodia di cicale pazze e canterine nella calura meridiana. Il mio perenne inseguire chimere rosee e sdegnose e irraggiungibili, grazie alla sua presenza, si placò. La vita passava, trascorreva, lasciava negli occhi il sapore dolceamaro del tempo. Quante passeggiate con lei per i viali dell’umanità. Lei sventolava bandiere di pace e arcobaleni d’armonie. Svelleva la mia improvvisa cupezza e in onde sonore mutava la vita, rosamaranto elegia. Quante volte m’estasiai sul suo gaio sorriso. Nel cielo capovolto di giugno, una pioggia improvvisa spruzzava i nostri corpi e quando fummo soli baci e colori accesero i lampioni di paese. L’agile pioggia ci sfiorava e d’incendio colmava il mio benigno tormento d’amore. La musa sognata mi lenì le ferite del passato, mi face capire che ogni cicatrice era una traccia d’amore. Ancora oggi che la musa è lontana da me, un nuovo alfabeto bisbiglio alla fine del giorno.

Marcello Buttazzo