di Marcello Buttazzo –

In carcere non si può vivere in uno stato di perenne desolazione. Abbiamo una classe politica parlamentare che su varie questioni, in maggioranza, s’appella sovente alla cosiddetta sacralità della vita umana. Vorremmo che questi sensibili politici uscissero fuori dalle pure enunciazioni teoriche, rinunciassero almeno parzialmente alla retorica della vita, per aderire strettamente alla prosa dell’esistenza, che esige uno sguardo sereno, interventi mirati e pragmatici di immediata attuazione. Nonostante un leggero miglioramento della situazione globale negli ultimi anni, le prigioni continuano a scoppiare, e il Parlamento pressoché trasversalmente è paralizzato, incapace di adottare misure razionali per decongestionare una situazione esplosiva e illegale. Da comuni cittadini, ci chiediamo: che aspettano questi parlamentari a formulare una nuova legge sulle droghe? La vecchia normativa Fini-Giovanardi, parzialmente smantellata dalla Corte Costituzionale, era talmente illiberale e reazionaria, che ha riempito le celle di piccoli spacciatori di erba e d’altro. Il limite tassonomicamente più grave della legge Fini- Giovanardi fu quello, per obbedire a manie securitarie, di omologare in un unico calderone droghe cosiddette leggere e droghe cosiddette pesanti. Come se davvero non esistesse alcuna differenza fra droghe (che, invece, c’è ed è palese) da un punto di vista classificatorio. Attualmente, i radicali sono impegnati in una campagna a favore della legalizzazione della cannabis, trovando consensi trasversali anche in Parlamento. Vedremo. Dobbiamo dire che anche la vecchia e assurda legge Bossi- Fini sull’immigrazione, dichiarata incostituzionale dalla Consulta, ha contribuito a popolare, in modo abnorme, le nostre prigioni. Tanti migranti, senza le carte in regola, negli anni passati, sono finiti in prigione. I povericristi, si sa, viaggiano sempre in ultima e negletta classe. Da tempo, le associazioni Antigone e A buon Diritto ripetono che “le carceri sono fuorilegge”. Dovrebbe essere, per l’innanzi, la politica a sanare un vulnus profondo, inoltrato nelle carni d’una società ferita. Certe paure irrazionali e le derive securitarie non dovrebbero mai prevalere sulle necessità, sulle sofferenze di chi vive rinchiuso, avvilito, in pochi metri quadrati, in celle sporche e senza servizi, nelle più totale violazione delle elementari norme di civile convivenza e dei trattati internazionali. Obbedire alla sacralità della vita umana, vuol dire, preminentemente, rispettare la Carta dei diritti umani, che è un faro lucente, un fulgido segno di democrazia, spesso disattesa, stracciata. La richiesta legittima non è quella di voler svuotare le carceri a ogni costo, a prescindere, ma è quella di dare respiro e dignità alla vita delle persone, che nei suoi vari aspetti relazionali dovrebbe essere davvero sacra, intangibile, unica, irripetibile. Anni fa, il Comitato Nazionale di Bioetica propose un piano nazionale di emergenza per prevenire i suicidi nei penitenziari italiani.  Ancora oggi, questa raccomandazione, rivolta in specie ai politici, è valida. La prigione, che dovrebbe favorire la risocializzazione, diviene luogo di desolata prostrazione. C’è chi non riesce a tollerare l’insulto della promiscuità, non riesce a sopravvivere a tanto dolore, e decide di farla finita. Il Comitato Nazionale per la Bioetica, da sempre, offre possibilità di soluzione: “La prevenzione del suicidio passa innanzitutto attraverso la garanzia del diritto alla salute e del diritto di scontare una pena che non mortifichi la dignità umana”. Prendersi cura dell’integrità, della salute, della riabilitazione, della dignità del detenuto, dovrebbero essere punti nodali e imprescindibili al centro di qualsiasi ddl. in discussione in Parlamento.  In carcere si vive e, talvolta, si muore di stenti e di disperazione. Come auspicato dal Cnb, è ancora oggi urgente affrontare “un problema di considerevole rilevanza etica e sociale”. Per rispettare le persone, sono attese leggi liberali, comprensive, morbide.

Marcello Buttazzo