Gli ultimi giorni e le leggi latitanti…
di Marcello Buttazzo –
Nel Parlamento italiano sono in attesa di discussione diverse proposte di legge sul testamento biologico e anche sull’eutanasia. In tutto il mondo, le questioni relative al “fine vita” suscitano discussione, dibattito, contrapposizione. Le dichiarazioni anticipate di trattamento o l’eutanasia sono, comunque, argomenti capitali da risolvere strettamente in una cornice di rispetto, in un quadro normativo ben definito. Anni fa, dopo la dipartita di Eluana Englaro, un trascorso governo Berlusconi s’adoperò per far passare un impraticabile, illiberale e antiscientifico ddl. Calabrò, che per fortuna s’arenò nelle secche del Parlamento. Allora, il trasversale, agguerrito, inossidabile “partito della vita” volle condizionare i giochi e truccare le carte. C’è chi sciaguratamente e artificiosamente pensò di dividere i cittadini in due schierate fazioni: da una parte i sostenitori dei “valori” e del “buon senso comune”; dall’altra, i cosiddetti fautori del nichilismo morale. Niente di più falso e capzioso, perché la vita vuole vita, esige vita: essa non conosce tassonomie ideologiche o frammentazioni di sorta. Giornalisti e intellettuali di primo piano, come Giuliano Ferrara e il presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini, credettero bene d’ingaggiare un’aspra e insostenibile battaglia “a difesa della vita”. L’allora governo Berlusconi, “devoto” per scelta e soprattutto per opportunismo politico, s’affrettò a strumentalizzare una corrente di pensiero, che meditò di far dell’esistenza un vessillo asettico, una bandiera sbiadita, da sventagliare come una scimitarra, come un clava, per consacrare sui soliti altari “nemici” da sacrificio. La Chiesa cattolica, con una visione prettamente materialistica, figlia d’un evidente biologismo spirituale, predicava e predica precetti in parte scissi dal comune sentire. Il governo Berlusconi di qualche anno fa, in combine con il “popolo della vita”, tentò a più riprese d’imporci la vita artificiale, per normativa. Ma non ci riuscì. La vita che sfiorisce, che finisce, è un terreno di confine delicato. Ogni uomo vorrebbe terminare gli ultimi giorni senza patire sofferenze estreme, magari dipartire fra le braccia della propria donna o del proprio uomo, conservando negli occhi il viso d’un bimbo o i colori rosei d’una alba fremente al mare. La vita che finisce è materia viva per ogni cittadino, il quale si rapporta al tempo che passa e corre. Non possiamo mai tollerare certi toni grevemente bipolari o, comunque, estremi. La vita vuole vita: essa segue sempre un registro umano, ordinario. La bipolitica non dovrebbe mai esacerbare il linguaggio, scivolando su perigliosi crinali d’incomunicabilità. In Gran Bretagna, tempo fa, il famoso scrittore Martin Amis, ha sconcertato tutti con la sua “formuletta” eticamente sensibile, perché s’è detto favorevole all’eutanasia di massa dopo i 70 anni: “Dovrebbe esserci una cabina ad ogni angolo di strada, dove se hai l’età giusta puoi prendere un Martini e la pastiglia della buona morte”. Che dire? Anche gli intellettuali di rango dicono autentiche idiozie, proferiscono frasi fastidiose, sconnesse da un compartecipe sentire. Nel discettare di vita e di morte, occorre assoluto discernimento, dolcezza, amore, decoro, buon senso. In Italia, in un’ottica di etica pubblica, per il prossimo futuro, attendiamo dalla politica attiva sul “fine vita” normative complete, morbide, aperte, rispettose d’una plurale collettività.
Marcello Buttazzo
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