di Marcello Buttazzo

Il “fine vita” è terra delicata, di confine, travagliosa. Un atteggiamento antropologico mirato è quello di accostarsi ad essa con pacatezza, con moderazione, con rispetto per la sofferenza altrui, con razionalità. Da qualche anno, l’agenda bioetica istituzionale tace, per il semplice fatto che la ibrida e composita maggioranza del “riformista” in camicia bianca è fortemente condizionata dal Nuovo centro destra di Alfano e Sacconi, paladini indefessi e puri, strenui difensori dei valori cosiddetti “non negoziabili”. Comunque, ad essere rigoristi, meglio alla fine nessuna discussione, rispetto allo spietato e volgare bipolarismo etico, con cui anni fa venne affrontato irrazionalmente e furentemente il caso della povera Eluana Englaro. Ma tra una visione spiccatamente confessionale sull’esistenza e le conseguenti esasperazioni del pensiero, in uno Stato laico e liberale, si deve stagliare necessariamente una praxis comprensibile, che compendi una praticabile concezione d’etica pubblica. Molti Paesi del mondo hanno normative precipue sul “fine vita”. In Italia, la classe politica parlamentare è drammaticamente in ritardo, anni luce lontana dalle esigenze della cittadinanza. Da sondaggi attendibili, risulta che dai noi la gente in maggioranza significativa sia favorevole ad una giusta legge sul testamento biologico e sull’eutanasia. Nel nostro Paese, gruppi di studio, qualche partito, associazioni, vedono di buon occhio la legalizzazione o la depenalizzazione dell’eutanasia: da Exit Italia a Libera Uscita, dall’Associazione Luca Coscioni a Buon diritto, Da Aduc alla Consulta di bioetica, fino al Partito Radicale. Il “fine vita” è fragile contrada, che inevitabilmente divide. Il diritto o lo Stato possono permettere la legalizzazione della “dolce morte”? Alcune “scelte individuali” possono essere doverosamente considerate da chi ha l’onere di scrivere le leggi? L’eutanasia è fisiologicamente un campo minato, controverso: alla base d’ogni cultura, d’ogni antropologia di riferimento, ci sono acquisizioni di fatto. La vita è sacra, inviolabile, indisponibile? Oppure, essa in certuni casi può diventare anche disponibile? Sono quesiti profondi, dirimenti. Sono lacerazioni che ognuno di noi si porta dentro, codificate a chiare lettere. È ingiusto, illegittimo, pensare che tutti gli italiani possano aderire irreversibilmente ad una stessa morale. Fra l’etica tradizionale e la morale laica, si libra limpida un’etica della cittadinanza, che contempera le concezioni multipolari della gente. In particolare, l’Associazione Luca Coscioni è molto attiva, ha fatto depositare una legge d’iniziativa popolare sul testamento biologico e sulla “dolce morte”, quotidianamente si batte per la libertà di scelta e per il riconoscimento della dignità del malato. Purtroppo, la politica dominante del nostro Paese è palesemente mediocre, non sa tenere nella opportuna considerazione le grandi questioni di coscienza, non sa dare valore alla voce più intima della popolazione. In America, la riforma sanitaria di Obama, fra le altre cose, dà la possibilità ai pazienti di poter formulare un “piano di fine vita”: ogni cittadino può sottoscrivere un documento alfine di rinunciare a terapie invasive e per esprimere preferenze su precisi trattamenti sanitari. Anche in America esistono i devoti esponenti del cosiddetto “partito della vita”, che considerano i laici come dei “burocrati della morte”. Si tratta della solita propaganda falsa e aggressiva di chi prospetta “sciagure” o supposti abbandoni terapeutici; si tratta della pubblica e strumentale doglianza di chi intravede nella autodeterminazione del soggetto il pericolo manifesto per il buon “ordine precostituito”. E, anche da noi, il traversale “partitone della vita” è agguerritissimo. Quando, invece, con nitidezza si dovrebbero marcare le cose e definire i confini: ognuno di noi dovrebbe essere pienamente legittimato a decidere, in un quadro di norme condivisibili e democratiche, sulla propria vita. La propria irripetibile esistenza, la inerente dignità, la libertà, non possono essere demandate ad altri. L’errore più grave e grossolano di certa classe politica è stato quello, in passato, di voler redigere dichiarazioni anticipate di trattamento impossibili, illiberali, votate ad un paternalismo anacronistico e pericoloso. Ai nostri parlamentari chiediamo un sussulto. Paolo Flores D’Arcais giudiziosamente scrive: “la mia morte è per eccellenza ciò che nessuno potrà vivere al posto mio, dunque l’assolutamente mio, che costituisce la chiusura della mia vita, ma nel duplice senso: non solo il termine bensì anche l’orizzonte”. E se Renzi e compagnia sapessero ripartire da queste chiare, intellegibili parole?

Marcello Buttazzo