“Fine di un romanzo” di Crocco e Miele ai CTKoreja
di Mauro Marino
Cosa resta di un romanzo nello “scolatoio” del teatro?
Le chirurgie drammaturgiche – quelle che amiamo – giocano alla sottrazione, scarnificano, tolgono la pelle al testo, esplorano dritte dritte il battere dell’essenza. Alessandra Crocco e Alessandro Miele da tempo concentrano i loro bisturi sui “Demoni” il poderoso e popolatissimo romanzo di Fedor Dostoevskii. Nel luglio 2014 siamo stati testimoni di loro intimissime prove accolte nel vuoto temporale di Palazzo Cezzi-Tamborrino a Lecce.
Adesso in “Fine di un romanzo” – andato in scena ai Cantieri Teatrali Koreja sabato 30 gennaio – i due registi-attori sono in scena con tre compagni di ricerca: Giovanni De Monte, Rita Felicetti, Maria Rosaria Ponzetta. I tre attori danno corpo ai vermi, alle ossessioni di Nikolaj Stavrogin, ma certo non solo alle sue…
Posizionamenti, movimenti tagliati nel nero della scena vuota, solo tre sedie a terra sul fondo e le funi della macchineria di palco s’intravvedono. Buio segnato dalle luci di Angelo Piccinni, scandito dai misteriosissimi suoni di Daniela Diurisi e “naturato” da un intenso odore di terra. Il fango – quello concreto che sporca il tavolato e i corpi e quello retorico che impiastra i pensieri – accoglie lo stare delle figure. Riscattati dal dover fare narrativo e attoriale, lì stanno Nikolaj e Maria, cardini della costruzione dostoevskijana, ad eternare il senso originario del romanzo. Non c’è trama nel lavoro di Crocco e Miele, solo frammenti, resti, una lontana eco, un’evocazione, come chiamare i morti a far da testimoni. Fuochi di senso quelli che rendono universale l’opera, Contemporanea ad ogni Tempo. Sul bilico, tra dramma e farsa, così com’è nella Realtà, nell’ogni giorno della vita. Nel Tempo sempre il pensiero rivoluzionario ha fruttato illusioni, movimenti, sperimentazioni ideali miseramente e drammaticamente fallite nel loro divenire, traccia significante dell’incapacità dell’umano al cospetto della Storia. Non c’è bellezza che da Ideale possa trasformarsi in Pratica, in Concreto Vivere. Non ce n’è traccia. L’ossessione del potere pervade, prende, controlla anche chi prima s’era proposto come alternativa. Allora è meglio un disarmato silenzio e qui – come anche d’altronde nel romanzo – Nikolaj Stavrogin tace. Solo innamorato, forse sì, forse no. Disilluso. Condizione di molti, condizione dei puri di chi ha attraversato l’orrore per potersi sentire altro.
Mauro Marino
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