Stille di scrittura, intorno a cento anni di dolcezza: 20 marzo 1917 – 20 marzo 2017
di Rocco Boccadamo –
Esattamente un almanacco fa, in concomitanza con una meno indicativa e strettamente personale ricorrenza, mi venne di cavare dalla penna le seguenti note, incipit di un testo intitolato “I quindici lustri di un narrastorie salentino” e opportunamente più articolato:
Duemila sedici meno mille novecento quarantuno, fanno settantacinque.
A Marittima, Basso Salento, nel rione popolare dell’Ariacorte, erano circa le 3:00 del mattino di una lontana, lontanissima domenica intorno a metà marzo, quando, nella modesta abitazione a piano terra di proprietà dei coniugi Immacolata e Silvio, si accingeva a venire al mondo il loro secondogenito, ossia a dire, si andavano schiudendo alla vita gli occhi dell’autore delle presenti righe.
A quei tempi, è diffusamente noto, i bambini non nascevano in ospedale oppure in clinica come accade adesso, bensì nella casa dei genitori, sul letto grande, con la puerpera, sorretta, assistita e aiutata dalle mani abili della levatrice e dall’esperienza delle altre donne di famiglia già sposate e mamme.
Nel ruolo d’ostetrica condotta comunale si trovava Donna Elvira Vainò, originaria, se ben ricordo, della zona di Galatina, la quale abitava nella frazione capoluogo di Diso, insieme con il marito Don Consalvo e, ironia del fato, senza figli. Lei compieva il suo prezioso servizio, con copertura, anche, ovviamente, delle altre frazioni di Marittima e Castro, muovendosi in sella a una bicicletta da donna e portando con sé, appesa al manubrio, una capiente borsa, contenente quanto necessario all’atto degli interventi d’assistenza.
Pur essendo, la protagonista del lieto evento che stava per maturare, una donna mite e soprattutto paziente, i suoi naturali e comprensibili lamenti durante il travaglio arrivavano a raggiungere l’udito dei vicini e di qualche compaesano che si trovava a transitare lì, all’angolo tra la breve via Nizza (così era denominata l’attuale via Piave) e la strada che, ancora oggi, si diparte in direzione di un vasto comprensorio agricolo, fino alla scogliera demaniale, per sfociare in corrispondenza dell’amenissima, anzi, in un certo qual modo magica, insenatura “Acquaviva”.
Sì, un comune effetto, in questo caso beneaugurante, delle doglie, percepibile anche all’esterno delle mura domestiche strettamente interessate, che suscitava sentimenti di tenerezza all’indirizzo di una giovane mamma (a distanza di alcuni giorni, avrebbe compiuto ventiquattro anni), da tutti conosciuta e stimata, in seno alla minuscola località, per le spiccate doti di semplice e intensa bontà, dolcezza e cordialità.
Ancora oggi, capita, spesso, sotto lo stimolo di reminiscenze ormai così distanti e, tuttavia, sempre vive, che siffatto impulso emotivo s’ingeneri dentro di me, nel ricordo di mia madre. Pensare, che, dopo averne fatti, in totale, ben sei, di figli, la donna se ne sia andata esattamente mezzo secolo addietro, col nascituro di quella metà marzo 1941 nel frattempo arrivato a venticinque primavere, in sostanza pressappoco alla stessa età della sua mamma intenta, sul lettone di casa, a dischiudere generosamente il proprio grembo per lui.
Allora, il riferimento anagrafico era, è ovvio, a me e, però, dalle suddette righe, traspare come il sentimento e la mano del narratore incedessero indirizzandosi e rivolgendosi a un’altra persona, con l’intento di rendere un ennesimo, forte omaggio postumo, alla sua indimenticabile figura.
Già, mentre, scorrendoli alla stregua dei cerchi concentrici arrivati a spuntare e sovrapporsi con straordinaria precisione lungo il tronco di un ulivo senza tempo, mi rendo conto che i miei grani esistenziali hanno, nel frattempo oltrepassato di un’unità gli indicativi quindici lustri, in occasione del presente nuovo spunto a narrare, mi succede, specialmente, d’avvertire dentro sentimenti più forti, un’emozione che mi prende quasi come un nodo in gola, dita che, serrandosi a impugnare e guidare la penna, non denotano l’abituale assetto fermo ma, al contrario, sembrano inevitabilmente prese da fremito e tremore.
Ancora già, sull’orizzonte innanzi a me, si staglia una differente data di nascita, 20 marzo 1917, e dunque, con riferimento a quell’altra persona, nel mese andante, viene a comporsi e a rintoccare un intero secolo.
Ed è grande il desiderio, anzi il bisogno, nel sentire del ragazzo di ieri, di cercare di ripercorrere, almeno per qualche tratto, il suo purtroppo breve passaggio accanto alle persone care e famigliari e, allargando lo scenario, a tutti quelli che hanno avuto agio di conoscerla e frequentarla.
A connotare la sua figura, le precipue doti di dolcezza, empatia, semplicità, generosità bontà, impegno, pazienza, spirito di comprensione e tolleranza, amorevolezza e mitezza, qualità o virtù, assimilate, con concorso quasi equanime, dai genitori Lucia e Giacomo.
Ma, oltre che alla naturale vicinanza a questi ultimi, tracciando un arcobaleno ideale poggiato su una serie di generazioni, mi piace riandare pure alla consuetudine, di mamma Immacolata, ragazzina e adolescente, di compiere un affettuoso e intenso scambio suppletivo con la sua progenitrice nonna Raffaela, nella cui casetta, per lunghi periodi, si portava, puntualmente, la sera, restandovi a dormire.
Ciò, in parallelo, alla prestazione, da primogenita, di costanti cure verso i fratelli e le sorelle più piccoli e, ancora, dei primi aiuti a beneficio dei genitori, ai fini dell’espletamento dei lavori in campagna.
Intanto, avanzavano le sue stagioni, contraddistinte in via preponderante, fa niente se lo ripeto, da dolcezza, toni sempre concilianti, compostezza e sorriso sulle labbra e negli occhi.
Andava, così, sbocciando e fiorendo una giovane donna esemplare e, insieme, di bell’aspetto e, perché tale, affatto inosservata e, a ogni modo, assai benvoluta fra coetanei e coetanee.
Esito di siffatte qualità, ad appena ventun anni, passava già a sposarsi.
A proposito della sua giovane età all’atto delle nozze, lei soleva talvolta rammentare, sorridendo, a se stessa e a chi la ascoltava, come la sua fortunata metà del cielo (mio padre), soprattutto agli inizi del ménage, solesse uscirsene con l’evidenziazione, in dialetto salentino, “eri nna vagnona, mancu mpinnata bbona” (traduzione in italiano: “eri una ragazza, neppure ricoperta a sufficienza da piume, peli e (nel nostro caso umano) capelli”.
Mpinnata o meno, nell’arco di dieci anni, ben sei maternità e lei, per ciò, intensamente e diuturnamente presa dalle fatiche, anche dure, per crescere la prole.
Quante fasce (all’epoca, non esistevano i pannolini) da avvolgere, svolgere, pulire e lavare, quanti lavandini di piatti, pentole e stoviglie, quante pappine da predisporre e somministrare, quanti bucati, piccoli e grandi (cofini), da eseguire.
Rivedo ancora, vivide, screpolate, talora quasi sanguinanti, le sue mani consumate e rovinate dal sapone e dalla liscivia (acqua del cofinu, a lungo portata a ebollizione insieme con strati di cenere per pulire e rendere bianco il bucato più grosso).
Purtroppo, i precari benefici di qualche pomata che il medico di famiglia le prescriveva, erano vanificati dall’impossibilità di fermarsi o di tenere riguardati gli arti, le necessità della famiglia non concedevano tregua, con la conseguenza che, nella migliore delle ipotesi, i tempi della guarigione si protraevano.
Intanto, lei si occupava anche di seguire i figli durante i loro primi impegni scolastici e a fronteggiare e controbilanciare, con pacatezza, qualche saltuario e inevitabile sbotto del capo famiglia, inducendolo, in breve, a quietarsi e a passare alle scuse.
Come era bello, per noi figli, man mano che ci avviavamo alla crescita, osservare il suo volto nei momenti di serenità, con gli occhi neri che brillavano sopra e accanto a un composto, e a modo suo accattivante, accenno di sorriso!
Fino a quando, poco più che quarantenne, una terribile frana non ebbe a caderle addosso, raggelando, d’intorno, tutti e tutto.
Ciò nonostante, durante la parentesi di circa sette calendari che si susseguì, pur tra sofferenze, preoccupazioni e comprensibili timori, giammai mutò il suo modo di comportarsi. Quasi, a voler, fortemente, continuare, come se nulla le fosse occorso, a incoraggiare e spronare, la sua famiglia, le persone care e gli amici, a non abbattersi, a guardare, invece, avanti e ad aver fede e fiducia.
A un certo punto, nel decorso del problema di salute, si aprì un precipizio, lasciandole, però, lo spazio di vedere due figli mettere su, a loro volta, una famiglia e la gioia di tenere, sia pure a fatica, tra le braccia, nel ruolo di madrina di battesimo, il primo nipotino, la cui vicinanza le allietò anche il Natale che precedette la sua dipartita.
Messi di ricordi, a lei correlati, si muovono, dal sentire inferiore alla mente, e si affastellano.
Si tratta per me di un vero e proprio patrimonio ideale e morale, che, da sempre, tengo a serbarmi accuratamente dentro, come compagnia per le mie giornate, sia in rapporto al periodo più lungo già percorso, che riguardo al sentiero che mi resta davanti.
Avverto, nondimeno, il bisogno di inserire, in questi appunti, la memoria di una particolare lettera, purtroppo, andata in seguito, non so come, perduta, che volli scriverle, verso la fine del 1965, da Firenze, dove mi trovavo, temporaneamente, per ragioni di lavoro.
Con un tono colloquiale, in quel testo, mi soffermavo, principalmente, sulla circostanza che lei avesse concorso a formare e allevare una famiglia numerosa, con sei figli nettamente diversi tra di loro e, però, tutti contraddistinti da una caratteristica comune: il bene profondo, un’autentica devozione nei suoi confronti.
Ora, a così tanti anni di distanza temporale, mi sta sembrando di dedicarle una seconda lettera, che, non a caso, desidero chiudere con una piccola serie di documenti, ricordi e immagini che hanno a che fare con la speciale destinataria.
Con sincero, immenso affetto e amore, carissima mamma, anche a nome (lo faccio senza alcuna remora anche per loro), di tuo marito (mio padre) che si trova lassù con te e degli altri tuoi figli (miei fratelli e sorelle).
Rocco Boccadamo
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