Nella cara “Ariacorte”, orme d’operosità senza tempo
di Rocco Boccadamo
A Francesco Nullo, patriota e militare italiano d’origine bergamasca, distintosi in particolar modo durante la garibaldina Spedizione dei Mille, è intitolata la breve strada che delimita, sul lato nord, il ristretto spazio del più volte riproposto rione di Marittima in cui è venuto al mondo l’autore di queste righe, cioè a dire l’Ariacorte. Ariacorte, è d’uopo ricordarlo ancora, denominazione di un’antica e caratteristica fetta del paesello, fra l’altro, passaggio più diretto, e, quindi, obbligato, per quanti, a piedi, in bici, oppure, oggigiorno prevalentemente, a bordo di mezzi a motore, si rechino verso l’incantevole insenatura “Acquaviva”. Detto ultimo sito, storicamente prediletto e frequentato in esclusiva, per i bagni marini, dai marittimesi e dagli abitanti dei paesi viciniori, adesso è una meta famosa, conosciuta, amata e scelta, grazie all’eccezionale suo fascino, da moltitudini di visitatori, vacanzieri e turisti, provenienti da ogni regione d’Italia e dall’estero. Ma, nella presente occasione, è proprio sulla via di cui all’inizio che s’intende soffermarsi, per un excursus illustrativo in sintonia con l’intestazione del racconto. S’affacciavano sul lato sinistro, in ordine strettamente successivo – residuano anche ora, beninteso modificati o rammodernati – quattro portoni o portoncini o semplici porte d’accesso in locali, cortili coperti e minuscole case d’abitazione. In un immobile di detta infilata, dalla composizione e consistenza un po’ particolari, aveva in passato sede un forno pubblico, dove si svolgeva un’attività lavorativa unica e preziosa (nella borgata, a onore del vero, esistevano altri tre esercizi del medesimo genere), ossia a dire la produzione, per conto e per opera dei residenti che fossero a ciò interessati, del cosiddetto “pane fatto in casa”, da distinguersi nettamente dai panini o filoncini o rosette (pane bianco) acquistabili presso il negozio di alimentari del paese.
Di fatto, più o meno in ciascun nucleo domestico locale, si ricavavano, da qualche terreno di proprietà, modici o medi quantitativi di grano e orzo, che, periodicamente, erano portati al mulino della vicina Diso, dopodiché si utilizzava la farina al fine di ottenerne, grazie alla panificazione e alla cottura nel forno pubblico, scorte di “friselle”, poi conservate, in casa, in capienti contenitori di terracotta (capasuni o pitali, assimilabili per grandi linee a orci e anfore), e, a seguire, giorno dopo giorno, consumate sulla tavola o durante i frugali spuntini in campagna, previo ammorbidimento (sponzatura) in una scodella o in una padella piene d’acqua, oppure immediatamente sotto il getto di una borraccia o ancora mediante immersione nei resti di pioggia preservatisi nelle “conche”, minuscole buche sulle rocce affioranti qua e là nei campi. A gestire il forno e a seguire e coordinare l’opera e la collaborazione degli utenti, c’era un’apposita figura, non a caso detta “furnara”(fornaia); per quanto riguarda l’esercizio attivo nel rione Ariacorte, si trattava di una donna, fra i cinquanta e i sessanta al tempo della presente rievocazione, Matalena (Maddalena), indossante perennemente un lungo vestito di panno nero, originaria di un paese vicino, Cerfignano, sposata con Giovanni, madre di Costantino e di Maria, dimorante in una casetta a una cinquantina di metri di distanza dal posto di lavoro. Alla vigilia della data fissata per il suo turno, ciascun capofamiglia andava a ritirare dal forno un’ampia vasca o arca lignea, avente precisamente la forma d’una zattera, in dialetto “mattra”, dentro la quale si doveva versare, impastare sommariamente e, quindi, lasciar lievitare la farina, sotto l’effetto della fermentazione, appunto, del lievito, o pasta madre, ritirato in uno con l’anzidetta mattra.Il trasporto dell’utile ma un po’ ingombrante attrezzo, dal forno alle abitazioni private, aveva luogo con l’ausilio di un carretto, (in gergo dialettale, trainella), anch’esso in dotazione all’esercizio di pubblica utilità. Mentre, il trasferimento a ritroso, con il carico della materia prima, predisposta o semilavorata, come meglio piaccia dire, a cura delle donne di casa, si svolgeva, di solito, in tarda serata. Giacché, l’azione del “fare il pane nel forno comune” non doveva interferire o sovrapporsi con l’attività giornaliera, soprattutto in campagna, degli uomini, i quali avrebbero, di contro, potuto sopportare il sacrificio di una notte in piedi per il compimento, ogni tanto, dell’operazione in discorso. Perciò, dopo aver cenato e sistemato a letto i figli piccolissimi, sospingendo la trainella, convenivano al forno gli adulti e i ragazzini della famiglia interessata, accompagnati e coadiuvati da un gruppo di stretti parenti, nonni e zii compresi. Del resto, nell’esercizio, su gran parte di un’intera parete, correva una lunga tavola da lavoro, dove potevano sedersi fino a sei/sette persone, con in testa la fornaia, le quali prelevavano con cura, ma di buona lena, dalla mattra, porzioni dell’impasto, le lavoravano (scanavano, in dialetto) a forza di mani, gomiti e braccia, riducendole in consistenti e morbidi cilindri, da cui la gerente del forno ricavava, in quattro e quattr’otto, le friselle, una sorta di ciambelle tondeggianti, ognuna consistente in due strati sovrapposti e uniti insieme, via via poggiate provvisoriamente su lunghe e larghe assi di legno che sovrastavano la tavola di lavorazione.
Mentre il gruppo si muoveva in tale processo manuale, la fornaia, a tratti, immetteva nel forno, inteso come vero e proprio vano di cottura, un certo numero di fascine di fronde e rami (in dialetto, sarcine), frutto, specialmente, della rimonda degli ulivi, lì recate dalla famiglia che panificava, in modo da riscaldarlo adeguatamente, dalla base fino alle pareti e alla volta. Inoltre, al momento giusto, serbava accuratamente, accantonata in un angolo, la piccola montagna di brace residuata dalla combustione. Nel contempo, seguendo scansioni temporali ritmate dalla mente e/o dalla pratica o suggerite dalla fornaia, la forza lavoro utilizzava il quantitativo finale dell’impasto contenuto nella mattra, per modellare medie pagnotte, dette in gergo “pane moddre” (molle)”, così definite, in quanto da sottoporsi a una sola fase di cottura, e, da ultimo, raschiando cioè risicati strati di pasta dal fondo e dai lati della mattra, una serie di puliteie, assimilabili alle focacce o alle piadine, farcite, in sede di preparazione, con modiche manciate di olive nere. Finalmente, dopo la pulitura del piano o pavimento mediante una grossa ramazza bagnata, si deponevano nel forno le friselle e, da ultimo, le pagnotte e le puliteie.
A questo punto, s’innestava una pausa di riposo, i presenti, stanchi di fatica e insonnoliti, provavano ad appisolarsi, la fornaia, da parte sua, per lo meno d’inverno, andava addirittura a stendersi su un rudimentale giaciglio tenuto in un cantone del “furneddru” (forno più piccolo, situato al di sopra di quello utilizzato per la prima cottura del pane appena fatto). Parentesi, nondimeno, breve, corrispondente al tempo necessario per il compimento, esattamente, della prima fase di cottura delle friselle e delle restanti forme di pane preparate. Non abbisognavano né timer, né campanelli, né ulteriori congegni, era sufficiente la maestria e un’occhiata di Maddalena verso l’interno del forno, già fiocamente rischiarato dalla brace ancora rosseggiante a margine del pavimento e, all’occorrenza, meglio illuminato grazie a una lanterna, bastava che osservare il colore della “cotta” e via la frase: “Dai, bisogna sfornare!”. Non s’impiegava molto tempo, utilizzando appositi aggeggi metallici, le friselle erano tirate fuori e immesse in capienti cesti di vimini; da questi, ritornavano sulla lunga tavola di lavorazione, dove gli operatori, servendosi di un segmento di spago, le tagliavano a metà in due separate sezioni: una, con base ovviamente più piatta e liscia, effetto dell’appoggio sul pavimento del forno, la seconda, invece, tondeggiante.
Esaurita tale importante operazione, le friselle, così spaccate, erano nuovamente inserite all’interno del forno, la cui temperatura, sebbene in progressiva attenuazione, restava nondimeno ancora alta e media per molte ore, così da ottenere l’essiccazione o biscottatura delle friselle stesse, che sarebbero poi state definitivamente ritirate e portate in casa dagli interessati, a distanza di dieci/dodici ore. Attraverso le feritoie o la semi apertura del portone dell’esercizio, facevano capolino i primi lucori del nuovo giorno. I convenuti, affaticati ma soddisfatti per aver affrontato e portato a compimento un importante lavoro, se ne ritornavano alle rispettive case, ciascheduno portando con sé una forma di pane moddre (molle) o una puliteia, già pronti per essere consumati freschi di cottura. Parallelamente, il capofamiglia o la padrona di casa proprietari della cotta di pane curavano di consegnare i suddetti due esemplari di alimenti alla fornaia, in questo caso a Maddalena, la quale – altri tempi, davvero altri tempi – a fronte del suo lavoro e del ruolo di responsabile del forno, non percepiva alcun corrispettivo o compenso in denaro. Maddalena, semplice e umile per nascita e di carattere, espletava il suo compito con passione e impegno, sempre aperta e disponibile, s’interfacciava, ovviamente, con numerose famiglie del paese, ben voluta da tutti. La sua figura era anche un preciso punto fermo nell’ambito della comunità; ad esempio, quando si voleva far riferimento ai suoi figli, non si diceva Costantino o Maria ‘u Giuvanni (figli di Giovanni), bensì Costantino o Maria ‘a Matalena (figli di Maddalena); la medesima particolarità seguita a vigere oggigiorno, riguardo ai discendenti di grado successivo: per citare, il nipote Vitale A., figlio di Costantino, caro amico e assiduo compagno di veleggiate dello scrivente, gode dell’appellativo di Vitali (Vitale) ’a Matalena (della Maddalena).
Proseguendo oltre il portone dell’antico forno, si trova l’abitazione, con ampio cortile coperto e scoperto, già occupata da un’anziana coppia: Giovanni ‘u Pativitu (figlio di Ippazio Vito), con la moglie Addolorata. Il capo famiglia, contadino, si può dire dalle fasce, disponeva, in aggiunta, di una non comune manualità, che manteneva attiva e concreta pure in età avanzata. Procurandosi nelle campagne e/o in vicinanza delle scogliere, quantitativi di canne, vimini e giunchi, li nettava e sezionava, dopodiché, con una sapiente operazione d’intreccio, arrivava a realizzare panieri grandi e piccoli, cesti e cestini, che, poi vendeva ai compaesani. A qualunque ora si transitasse davanti al suo cortile, lo si scorgeva immancabilmente intento a tale lavoro. Accanto, la casetta di Vitale N., nomignolo ‘u ciucciu (origine del nomignolo sconosciuta, forse legata al possedimento, da parte sua o dei genitori, di un quadrupede, un somaro). Il ricordo di detto nominativo è circoscritto alla sua figura già versante nella tarda età, nessuna notizia, infatti, circa le attività lavorative da lui svolte da giovane, forse contadino, forse falegname. E’, al contrario, viva, l’immagine di Vitale ‘u ciucciu, nella funzione di cavadenti, esercitata, verosimilmente, senza il possesso del relativo titolo accademico e avvalendosi di attrezzature molto approssimative. Tuttavia, per le occorrenze di natura odontoiatrica (così sono definite oggi), la maggior parte dei marittimesi si metteva nelle mani del compaesano in questione: qualche lamento o urlo o strillo in corso d’opera e, però, denti e molari, non più sani, erano estratti.
A seguire, in un’ampia abitazione terranea con giardino, vivevano compare Chiaro, figlio di Giovanni, il fabbricante di panieri anzi ricordato, insieme con la moglie comare Donata e la figlia Maria Rosaria (il loro primogenito, già adulto, si era trasferito nel Nord Italia). Caratteristica peculiare di compare Chiaro, rimasta impressa, la sua abilità nel catturare, ogni tanto, esemplari di volpi che andavano a insidiare, talvolta facendone strage, i galli, le galline e le pollastre da lui allevati nel vicino giardino denominato “canale ‘i rasci” (anche questa accezione, di origine e significato misteriosi). Gli animali che restavano in trappola erano scuoiati e, successivamente, finivano in pentola; in qualche occasione, la comare Donata portava amabilmente in dono porzioni di carne di volpe alla vicina e amica famiglia Boccadamo. Proseguendo verso sud, si trovava la casa di Toti ‘u Pativitu (figlio o nipote di Ippazio Vito), il quale, all’occorrenza, esercitava il mestiere di ”conza limmi e ggiusta cofini” (riparatore di contenitori in terracotta, che ogni famiglia possedeva, per farvi il bucato o per differenti fabbisogni domestici).
Per completare il quadro illustrativo, in un altro vicolo dell’Ariacorte, abitava Giuseppe P., Peppe ‘e Tuie (nativo della località di Tuglie, situata nei pressi di Gallipoli), il quale non si occupava di un preciso, determinato e limitato lavoro, ma svolgeva un’attività in certo qual modo plurima: spazzino o netturbino, adesso si chiama operatore ecologico, attacchino di manifesti e operatore cimiteriale (becchino). Farebbe torto all’intera comunità dell’Ariacorte dei tempi andati, il narratore, se, a parte le persone anzi passate in rassegna, non ponesse in evidenza che, in quell’isola del paese, non v’era proprio alcuno che stesse con le braccia conserte, che, lì, l’apatia e l’ozio non si sapeva neppure che cosa fossero. Il sano daffare, in un modo o nell’altro, accompagnava ogni creatura, dalla stagione della prima infanzia fino alla vecchiaia avanzata.
Rocco Boccadamo
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