di Edoardo Micati –

Il 24, 25, e 26 di agosto sono i tre giorni dedicati a Santo Oronzo e voglio raccontarvi di come era un tempo la festa…

Era il luglio del 1958 quando l’Associazione dei commercianti di Lecce bandì un concorso vetrine che aveva per tema: «La festa di Santo Oronzo».

Lucerneddhe, lucerneddhe,
coriceddhi mpezzecati
le piccinne, tutte beddhe,
tìempi chiùi ca nu turnati
quante cose rrecurdati…”.

Così recitava il ritornello d’una canzone popolare leccese musicata dal Maestro Vincenzo Pecoraro, dedicata alla Festa del Patrono, dalla quale presi spunto per partecipare al concorso. E poi il Maestro Pecoraro l’avevo conosciuto… Quando lui, settantenne, magrolino, radi capelli grigi, impartì a due ragazzetti, io e mia cugina Anna, lezioni di musica. I nostri genitori avevano deciso che lei doveva studiare il piano mentre io, che chissà cosa avrei dato per suonare quello strumento, grande ammiratore di Josè Iturbi, il pianista sud americano, protagonista di tanti film musicali, quello che dormiva pure con il frac, dovevo imparare a suonare la fisarmonica. Non la suonai mai, ma Anna ebbe il suo bel pianoforte, ancora oggi in splendida mostra nel suo salotto.

Ma torniamo alle lucerneddhe: per le feste patronali, quando ancora non esistevano i paramenti ad elettricità, si addobbavano balconi e finestre con l’indimenticabile “lucerneddha” di creta, per i non leccesi una piccole lucerna, che si riempiva d’olio lampante e poi si accendeva.

Allora c’erano i venditori di “lucerneddhe”, per lo più provenienti da San Pietro in Lama, un grazioso paese a due passi da Lecce, dove tanti erano gli artigiani che lavoravano la creta. Il venditore le trasportava in una bisaccia appesa alle spalle e si sgolava, mettendo una nota allegra per le vie della città, quasi cantando: «Lucerneddhe, lucerneddhe de Santu Ronzu». Oppure, scherzando: «Lucerneddhe de ziuma Ronzu».

Quanti bei ricordi… Non era una festa ben riuscita se a pranzo, il 26, non si mangiava il pollo al forno con le patate. Nel 1958 non esistevano ancora i “polli di fabbrica”, il pollame veniva venduto solitamente da donne che venivano dai paesi vicini, abbigliate con gonne lunghe, grembiule legato davanti, fazzoletti colorati in testa. In una mano tenevano polli e galline vivi, nell’altra un paniere con le uova. Se si acquistava un pollastro, se veniva richiesto, è crudele da dire, gli tiravano il collo fra un frenetico sbattere di ali.
Nel nostro negozio, ogni venerdì, si presentava la Maria de l’oe, (nel dialetto leccese l’uovo di chiame eu, al plurale oe), un donnone alto circa un metro e ottanta.
Era di Vernole, il paese dove la maggioranza della popolazione era la più alta di tutta la provincia. Infatti si soleva dire: “Ete de Vernole, dove tutti suntu tutti lenghi e fessi”. Ma si sa, l’invidia era tanta perché dovevano guardarli dallalto in basso.
Ma torniamo alla Maria de l’oe. Appena entrava nel negozio c’era mia madre Caterina che stava appollaiata, pardon seduta, alla cassa e avveniva la solita scena: «Come sono oggi le uova Maria, spero più grosse di quelle dell’ultima volta, che erano minuscole».
E la Maria, mostrando il pugno chiuso della manona: «Suntu tante».
«Dammene venti». E le porgeva un foglio da diecimila lire.
«Sempre cu sti lanzuli, ma nu tieni le mille lire?».
«No, solo queste».
E lo faceva apposta. Per cambiare la Maria si alzava la gonna e tirava fuori un rotolo di moneta di carta e dal suo spessore si rendeva conto degli affari fatti, sottolineando sempre con: «Ma di tutti questi soldi che te ne fai?».
E lei: «E già, ca mo su ricca comu a ssignuria».

Fra le baracche allestite c’era il napoletano che vendeva i famosi pacchi. Diceva: «Il pacco costerebbe mille lire, ma ve lo do per 800, anzi per cinquecento se ne comprate due, a fiducia». Nei pacchi ci trovavi tessuti di poco conto, quelli autarchici d’ante guerra, pentole di stagno, piatti sgarrati, strani arnesi per la cucina e quant’altro…

Come ogni anno, sotto la cinta del castello, si piazzava lo spezzacatene e mangiafuoco, un gigante vestito come Totò Tarzan, con una finta pelle leopardata, capelli lunghi fluenti, accompagnato dalla moglie, muscolosa e finta bionda, come la Jane dei film e dal figlio, un ragazzetto agghindato come il padre.

Il mio piacere era fermarmi davanti alle baracche dei venditori di piatti, pentole. Fra tutti, famosi certi napoletani, marito, moglie e due figli, che si lanciavano i piatti facendoli girare sulle teste degli spettatori come degli artisti di circo, e magari lo erano stati preferendo poi un nuovo lavoro. Poi, per convincere gli indecisi, c’erano sempre i compari, o spalle, che effettuavano dei finti acquisti, oppure dicevano che l’anno precedente avevano acquistato gli stessi oggetti e che erano ritornati per ricomprarli per amici o parenti.

Non mancavano quelli che spacciavano per miracolose, proponendole come provenienti da Oriente, dalle Indie o dalla Cina, pasticche che compravano dalla drogheria Mele.
Un giorno mi disse il mio amico Enzo Mele: «E sia, è passato tanto tempo, non è più un segreto da mantenere, il venditore, che spacciava per medicina miracolosa le pasticche del ras Menelikc, dava delle pillole al rabarbaro comprate dalla mia drogheria. Accanto al suo banchetto c’era poi il tipo magro baffetti alla Douglas Fairbanks, capelli lisci unti di brillantina, tirati all’indietro e impomatati come Rodolfo Valentino. Costui aveva, al posto della mano sinistra, perduta in guerra, una protesi di cuoio nero che smontava e rimontava in continuazione per attirare i passanti. Non appena raccoglieva attorno a se un poco di gente, raccontava di quando era stato prigioniero in India, lontana e misteriosa terra, dove carpì ad un marajà la formula segreta di certe pillole della giovinezza. “Quel marajà”, così diceva, “aveva ottant’anni e pareva un ragazzino”. Insisteva nel dire che guarivano anche da tutti i mali, ma le miracolose compresse erano semplicemente dei confettini colorati all’anice che gli procuravo io».

Assolutamente da citare i venditori di dolci salentini che producevano e vendevano, ci sono tutt’ora, i loro prodotti tipici come la “Cupeta”, il croccante di mandorle; i “ Mustazzoli”, biscotti a base di mandorle, cacao e vari aromi, a volte ricoperti da una glassa di cioccolato; le “ Ricciole”, pasticcini cotti al forno a base di mandorle e conditi con ciliegie candite o chicchi di caffè.
E poi, le bande, le più famose di Puglia o del Napoletano, che tenevano lunghi concerti, vetrine per i giovani cantanti, alcuni dei più celebri iniziarono proprio nelle feste patronali.

Termino dicendovi di come andò a finire il primo concorso a premi per la più bella vetrina della «La festa di Santo Oronzo».

Il nostro negozio di tessuti disponeva d’una vetrina, grande come una stanza, di circa 40 metri quadri, che per il suo genere poteva dirsi una piazza. A San Pietro in Lama trovai un bravo artigiano il quale ricalcò nella creta tante piccole lucerne, perfettamente uguali, in scala, con un foro d’accesso nella parte posteriore per poter introdurre una lampadina, come quelle utilizzate per i presepi, che doveva poi spuntare dal beccuccio.
Col bravo vetrinista Enzo Coppini, i nostri bravi commessi, Michele, Antonio, creammo uno scenario incredibilmente suggestivo che riproduceva alla perfezione il cuore di Lecce, con la primordiale illuminazione, la Villa Comunale, addirittura con la vasca delle oche e dei cigni. Il 26 agosto la giuria ci assegnò l’ambito premio, avevamo sbaragliato tutti gli altri concorrenti.
Rimase l’unico concorso, non se ne fecero altri, forse avevamo spaventato gli organizzatori per la nostra “grande vetrina”.

*Tratto da “E vengono per dire parole nuove” di Edoardo Micati.