La pajara di don Peppino
di Rocco Boccadamo –
Anche il primo foglietto del calendario dicembrino sta per scollarsi, come pure, in parallelo, s’avvia a compimento la mia quotidiana scarpinata. Un’azione di mobilità, che va progressivamente prendendo radice, rimanendo, tuttavia, senza pretese, in raffronto agli omologhi praticanti di lungo corso ed esperti ma che, nondimeno, per il mio sentire, le piccole emozioni interiori che conferisce e le personali ricadute fisiche, si rivela intensa e coinvolgente.
Importante, nel contesto dell’atto, la sintonia, anzi, mi piace ricorrere a un’accezione d’impronta maggiormente elementare, la contemporaneità fra il moto dei passi e il moto o guizzo degli sguardi, lungo il percorso, consistente in stradine secondarie con uno strato d’asfalto sottile e a tratti sbrecciato, oppure, finanche, in sentieri di campagna sterrati e quasi abbandonati, delimitati, ai bordi, da antichi e spettacolari muretti di pietre a secco, tappezzati da macchie anche ampie d’erba o di muschio e, infine, recanti ancora, diffusamente, i segni o resti tracciati e relitti da carri agricoli o traini del tempi andati.
Di giorno in giorno, aumenta la familiarità tra il ragazzo di ieri in salutare moto e l’habitat attraversato; oggi, a un certo punto, ho rallentato il cammino, soffermandomi su un appezzamento di terreno rettangolare pianeggiante, incolto ma egualmente bello a vedersi, di superficie media, diverso da tutti gli altri fondi agricoli circostanti, di ampiezza risicata ed evidentemente costituenti piccole proprietà contadine di miei compaesani marittimesi.
M’è venuto spontaneo di domandarmi a chi potesse far capo quel campo decisamente più vasto e, però, non riuscendo a fornirmi da solo una risposta, ho chiesto aiuto a un mio antico amico, C., che trovo, quasi tutti i pomeriggi, per lo meno quando scorrono belle giornate, in sosta sul ciglio della stradina principale del mio itinerario, a bordo del suo fedele motociclo APE Piaggio, seduto all’interno della minuscola cabina. Quasi sonnecchiante, intento a prendere il sole che, di fronte, è ancora abbastanza alto.
E’ ben più grande d’età, rispetto a me, C., la sua leva è quella del 1925 e, perciò, ha sopravanzato le novantacinque primavere e si colloca ai primi posti fra i “vecchi” della comunità marittimese.
Tuttavia, ci conosciamo e ci scambiamo confidenza da sempre, C. e io, già che egli, da ragazzo, rimasto orfano di entrambi i genitori, abitava presso la nonna, portante il suo stesso nome di battesimo beninteso al femminile, nel rione dell’Ariacorte, il mio, eravamo proprio vicini di casa.
Da molto tempo, mancata la moglie e non avendo figli, C. vive da solo, è abbastanza autonomo, nonostante l’età avanzata guida anche l’automobile Ma, mi dice: “Rocco nel pomeriggio, dentro casa, fa freddo, così che io me ne vengo qui, a scaldarmi al sole, come facevamo da ragazzi, ricordi? Dopo questa gradevole pausa all’interno dell’APE, rientro e, a quel punto, fra le mura domestiche, accendo il fuoco sino a cena e al momento di mettermi a letto”.
“Costantino, a chi apparteneva questo ampio e bel terreno?”, gli chiedo. Risposta immediata: “Apparteneva, e adesso sono subentrati i suoi eredi, a don Peppino M.”
Una figura ben nota, atteso che, oltre che proprietario terriero, il suddetto era un insegnante elementare, già anziano quando frequentavo io, corposo e un po’ malandato in salute, tanto da dover farsi accompagnare a scuola, quasi sempre, con il calesse. Abitualmente intabarrato in una sorta di mantello, recava in capo un grande cappello a falde larghe e abbellito da una piuma.
Come ho avuto già modo di riferire in un’altra narrazione, noi scolari e però non suoi alunni, colpiti dall’ultimo particolare, ogni volta che assistevamo all’arrivo di Don Peppino, gli “dedicavamo” questa strofetta:
“Don Peppino la pinna po’,
“vane ‘nnanzi ca vegnu mo,
“e te piiu cu la popò
“Don Peppino la pinna po’.
(Don Peppino con la piuma, vai avanti che adesso arrivo io, e ti prendo con l’automobile, Don Peppino con la piuma).
In un angolo del grande appezzamento di terreno, in prossimità della strada, ci sono ancora, in parte ricoperti da rovi e a tratti purtroppo diroccati, i resti di una pajara, anch’essa realizzata, come i muretti, con pietre a secco. Pajara che, fino a qualche decennio fa, per una buona parte dell’anno, fungeva da vera e propria abitazione, non per Don Peppino e la sua famiglia che dimoravano in una grande casa con atrio e giardino al centro del paese, ma per qualche famiglia o generazione di marittimesi, che attendevano ai lavori agricoli e ai raccolti su quel terreno, in veste di coloni o mezzadri.
° ° °
Nella corrente fase di quasi interregno fra autunno e inverno, capita, anche a me profano, di osservare come la natura denoti, fra un giorno e l’altro, sfumature mutevoli, ove più vive, ove più tenui.
Lo sfondo del cielo, le nuvole che s’incrociano, il disco del sole che scende, svariano di fronte allo sguardo e anche a livello delle immagini catturate con l’obiettivo.
Prima di avviarmi al rientro nella mia villetta della “Pasturizza”, allungo, come sempre, sino al tratturo della Marina dell’Aia, da dove si offre l’opportunità di un affaccio privilegiato sulla vicinissima distesa del Canale d’Otranto. Oggi, il suo l’aspetto e dolce e tranquillo; all’orizzonte, si abbina una delimitazione speciale, anche se sfuocata, per opera dei rilievi montuosi del Paese delle Aquile.
Una veduta che, immancabilmente, mi affascina e mi emoziona.
1° dicembre 2020 – Rocco Boccadamo
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