di Rocco Boccadamo –

Duemila sedici meno mille novecento quarantuno, fanno settantacinque.
A Marittima, Basso Salento, nel rione popolare dell’Ariacorte, erano circa le 3:00 del mattino di una lontana, lontanissima domenica intorno a metà marzo, quando, nella modesta abitazione a piano terra di proprietà dei coniugi Immacolata e Silvio, s’accingeva a venire al mondo il loro secondogenito, ossia a dire s’andavano schiudendo alla vita gli occhi dell’autore delle presenti righe.
A quei tempi, è diffusamente noto, i bambini non nascevano in ospedale oppure in clinica come accade adesso, bensì nella casa dei genitori, sul letto grande, con la puerpera, sorretta assistita ed aiutata dalle mani abili della levatrice e dall’esperienza delle altre donne di famiglia già sposate e mamme.
Nel ruolo di ostetrica condotta comunale si trovava Donna Elvira Vainò, originaria, se ben ricordo, della zona di Galatina, la quale abitava nella frazione capoluogo di Diso insieme con il marito Don Consalvo e, ironia del fato, senza figli. Ella espletava il suo prezioso servizio, con copertura, anche, ovviamente, delle altre frazioni di Marittima e Castro, muovendosi in sella a una bicicletta da donna e portando con sé, appesa al manubrio, una capiente borsa contenente quanto necessario all’atto degl’interventi assistenziali.
Pur essendo, la protagonista del lieto evento che stava per maturare,  una donna mite e soprattutto paziente, i suoi naturali e comprensibili lamenti durante il travaglio arrivavano a raggiungere l’udito dei vicini e di qualche compaesano che si trovava a transitare lì, all’angolo tra la breve via Nizza (così era denominata l’attuale via Piave) e la strada che ancora oggi si diparte in direzione di un vasto comprensorio agricolo, fino alla scogliera demaniale, per sfociare in corrispondenza dell’ amenissima, anzi, in un certo qual modo magica, insenatura “Acquaviva”.
Sì, un comune effetto, in questo caso beneaugurante, delle doglie, percepibile anche all’esterno delle mura domestiche strettamente interessate, che suscitava sentimenti di tenerezza all’indirizzo di una giovane mamma, a distanza di alcuni giorni avrebbe compiuto ventiquattro anni, da tutti conosciuta e stimata, in seno alla minuscola località, per le spiccate doti di semplice e intensa bontà, dolcezza e cordialità.
Ancora oggi, capita spesso, sotto la spinta di reminiscenze ormai così distanti e tuttavia sempre vive, che siffatta spinta emotiva s’ingeneri dentro di me, nel ricordo materno. Pensare, che, dopo averne fatti, in totale, ben sei di figli, la donna se n’è andata esattamente mezzo secolo addietro, col nascituro di quella metà marzo 1941 arrivato, intanto, a venticinque primavere, in sostanza pressappoco alla stessa età della sua mamma intenta, sul lettone di casa, a dischiudere generosamente il proprio grembo per lui.

Due giorni più avanti, il 18 di marzo, alle ore 19:00, la dichiarazione della nascita di Rocco all’anagrafe comunale, resa da Boccadamo Silvio Celestino dinnanzi al Commissario prefettizio Salvatore Miggiani, alla presenza dei testimoni Giuseppe Ciriolo e Saverio Urso.
Oggetto testuale dell’atto: il giorno 16 marzo 1941, alle ore 3:00, nella casa di abitazione in Marittima alla via Nizza numero civico 3, da Minonne Immacolata di anni 23, cittadina italiana, di razza ariana, imballatrice, è nato un bambino di sesso maschile, cui viene dato il nome di Rocco.
Piccola notazione statistica, quell’anno, in soli due mesi e sedici giorni, s’erano registrati cinquantotto lieti eventi: quanta differenza e distanza, che stravolgimento dei costumi sociali, emergono rispetto alle due sole nascite verificatesi nell’eguale corrente scorcio del 2016, pur tenendo conto che il Comune di Diso è attualmente composto da due e non più da tre frazioni!
Immediatamente dopo, ecco il battesimo nella parrocchiale di San Vitale, con me pargolo recato in chiesa in braccio dalla nonna paterna Consiglia e accompagnato da uno stuolo di altri famigliari, tra cui gli zii Donato e Maria, rispettivamente padrino e madrina (da parte dei predetti, fino a quando sono stati in vita, ho sempre ricevuto un occhio di riguardo per essere stato, giustappunto, loro figlioccio, sciuscettu in dialetto salentino).
Cerimonia, officiata dall’anziano arciprete del paese don Francesco N., della famiglia benestante dei Scianni, abitante in un bel palazzotto al largo Campurra, insieme con una nipote, donna Nunziatina, già andata in sposa ma poi rimasta, quasi subito, vedova.
Al battesimo, assisteva anche Nena (diminutivo di Filomena) M., una marittimese della medesima classe anagrafica di mio padre, nubile, conosciuta per il suo mestiere di maestra pasticcera, svolto insieme con la madre Costantina.
Nena, però, anche donna particolarmente pia, di chiesa si diceva una volta, teneva i corsi di catechismo agli scolari e formava a tale compito le giovani, preparava e vestiva le fanciulle e ragazze del paese per la parte di ancileddre (piccoli angeli al femminile), con vestiti bianchi e coroncine sul capo, nel corteo in chiesa, alla mezzanotte di Natale, col Bambinello benedicente presentato dal parroco ai fedeli presenti.
Per via dello stacco generazionale, come pure a causa della mia prolungata assenza da Marittima, conoscenza a parte, non ho avuto molto agio di frequentare l’anzidetta Nena. Però, proprio lei, a distanza più o meno di un quarantennio dall’episodio, mi ha ricordato un minuscolo ma indicativo particolare del mio battesimo, esattamente la seguente breve considerazione uscita in quell’occasione dalla bocca di don Francesco N.:”Che cosa te ne pare, Nena, a me questo bambino sembra “nna rrobba bbona”.

Qualche altro ricordo relativo alla figura del parroco in questione, il quale, in aggiunta al pluridecennale servizio, avrebbe avuto la ventura di trascorrere anche una cospicua vecchiaia, giungendo a sfiorare i cento anni. Aveva il vezzo di assumere tabacco da fiuto, a furia di piluccare polverina dall’apposita scatoletta e di tirare, le dita delle mani erano divenute giallastre e così s’era fatta pure la cute immediatamente sotto le narici.  Persona, ad ogni modo, assai colta, riverita e rispettata pure per il censo della sua famiglia, egli era intestatario di numerosi fondi agricoli, alla periferia e, in genere, in tutto l’agro del paese, fra cui il terreno denominato Arciana sulla via vecchia per Andrano, caratterizzato dalla presenza di un palummaru (torre colombaia) e, per lo meno nei tempi passati, di numerosi alberi da frutto, in special modo mandorli, oggetto di scorribande serali e notturne per opera di noi ragazzi, che, tuttavia, non mancavamo di riferire a don Francesco di tali furtarelli attraverso la grata del confessionale, così guadagnando la rituale assoluzione, nonché, talvolta qualche benevolo schiaffetto da parte, diciamo, del derubato.
Rammento anche, quale occasione finale di contatto con don Francesco, la mia richiesta di notizie e particolari sul rinvenimento, un po’ di secoli prima, nelle campagne marittimesi, per opera di un suo collega curato, dell’icona della Madonna di Costantinopoli, o Odegitria, custodita sopra l’altare dell’ex Convento dei Cappuccini eretto e dedicato in onore della Vergine.
Ebbero a rivelarsi particolarmente preziose le indicazioni dell’ormai vecchio ma lucido arciprete, al punto da consentirmi di ben figurare, in classe, col mio componimento.

Riprendendo e proseguendo riguardo al mio iter scolastico, mi viene spontaneo annotare che ho avuto la fortuna di frequentare l’intero ciclo delle elementari e inoltre, da privatista, la prima e la seconda media, con un giovane, severo e, soprattutto, bravo e preparato insegnante, Alfredo Q,
Mitica, in seconda elementare, la circostanza del primo tema, da lui assegnato come compito a casa, dal titolo “Chi sono io”, con me, unico scolaro della classe, l’età era di sette/otto anni, arrivato a svolgerlo e per questo gratificato con un bel 10 e lode.
Ancora, s’affaccia nella mente il trambusto, tra pianti e strilli, creato, fra le pareti dell’aula, dal diligente ma discoletto Rocco, all’arrivo a scuola del medico condotto per la vaccinazione antivaiolosa, praticata con una piccola incisione sul braccio.
E, poi, come non ricordare il mio prolungato handicap di non sapermi soffiare correttamente il naso, con l’esito di ritrovarmi spesso col moccio e le conseguenti derisioni dei coetanei in uno ai rimbrotti dei genitori e degli altri famigliari e parenti.
Di fronte al che, sempre il maestro Alfredo a cercare di tirarmi fuori con determinazione e pazienza; chiave di volta, una mattina, nel cortile scoperto dell’edificio scolastico, l’utilizzo di alcuni zolfanelli da lui accesi sotto il mio naso, con la contestuale perentoria intimazione di tener serrata la bocca e provare a spegnere le fiammelle con il fiato emesso dalle narici.
Fino a che il problema, autentico prodigio, non uscì definitivamente risolto.
Nell’estate immediatamente successiva alla quarta elementare, il maestro Alfredo convolò a nozze con la sua fidanzata Uccia ed io fui scelto, al pari di altri due compagni, per la recita, nel corso del ricevimento serale in casa degli sposi, di una poesia.
Perciò, dritto in piedi sul davanzale d’una finestra, passai a declamare, all’indirizzo della coppia e dei numerosi invitati, una composizione dal titolo “La pianta di glicine”, scelta e imparata a memoria con l’ausilio di comare Meris, prima cugina di mia madre e, all’epoca, laureanda in lettere.
Da lunga pezza, comare Meris non c’è più, ma ricordo il suo faccione sorridente e la sua figura grazie all’episodio anzi richiamato e, anche, alla denominazione “Villa Meris” figurante sulla piastrella posta all’esterno di una bella residenza sul mare, a Castro, a suo tempo costruita dalla parante/preparatrice e attualmente di proprietà di una sua figliola.
Accanto al maestro Alfredo, dunque, per ben sette anni, giacché, in aggiunta al ciclo scolastico delle Elementari, sono stato da lui preparato, da privatista, anche in prima e seconda media, a causa degli ingloriosi esiti di due brevissimi tentativi di farmi seguire detti ultimi corsi e i correlati studi in un convitto, ad Anagni (Fr), facente capo all’Inadel, istituto di assistenza e previdenza per i dipendenti degli enti locali, cui era associato mio padre, impiegato comunale.

A parte gli amministratori, nel Municipio di Diso, prestava servizio, come capo operativo e coordinatore, il segretario comunale don Salvatore Volpe, una bravissima e competente persona originaria di Martignano, contrassegnato, purtroppo per lui, da una statura fisica particolarmente bassa e da un’evidente dermatosi con la conseguenza di una pelle biancastra e irregolare sul volto.
Ma, don Salvatore si distingueva soprattutto per la sua umanità, il suo cuore grande.
Conosceva bene l’intero nostro nucleo famigliare, ancor di più conosceva me, giacché, durante le vacanze estive, al mattino ero costretto da mio padre a recarmi in Comune per aiutarlo nel rilascio di documenti allo sportello e ai fini della compilazione a mano, in contemporanea, sulla coppia degli appositi registri di Stato civile, degli atti di nascita, matrimonio e morte.
Don Salvatore era edotto, quindi, disapprovandole e dispiacendosene, anche delle mie disavventure collegate ai repentini ritorni a casa dal convitto, goffamente motivati con lo spiccato attaccamento alla mamma; analogamente, però, era informato del buon profitto finale nei miei studi.
In occasione della promozione dalla seconda alla terza media, tramite mio padre, mi fece avere un piccolo regalo sotto forma d’una penna a sfera (era da poco uscito tal genere di strumento di scrittura), regalo accompagnato da un biglietto con la seguente frase:” Altro non ho che questo e prendi questo è mi si valga”.
Ora, per allora e più sentitamente di allora, un affettuoso grazie, don Salvatore.

Tramontata definitivamente l’opzione convitto, frequentai normalmente l’anno finale delle Medie presso la scuola statale “Capece” di Maglie, terza D; degli insegnanti, serbo memoria del docente di lettere Francesco E. e del professore di francese Giuseppe M.
Il primo, giovane magliese, molto preparato pur con l’abitudine, durante le spiegazioni, dell’intercalare “è vero”, “è vero”, “è vero” ad ogni piè sospinto, aveva una bella fidanzata di Spongano, sua collega insegnante di matematica, unitamente alla quale la sera, talvolta se veniva al cinema Excelsior di Marittima.
Intorno alla fine dell’anno scolastico, i due si sposarono. Villeggiando, la fresca coppia, a Castro, i miei genitori, a titolo di piccolo segno d’omaggio e di rispetto, un giorno mi mandarono a portar loro un galletto ruspante, ancora vivo ovviamente, ancorché con le zampe legate a mezzo di una cordicella.
L’altro docente che più ricordo è Giuseppe M., bravissimo insegnante di francese, però segnato da modi di fare e di trattare davvero particolari e unici.
Guai a presentarsi da lui con gli esercizi svolti a casa su un quaderno di piccolo spessore, senza neppure guardare i compiti, lo faceva letteralmente volare verso la parete dell’aula con la frase “cos’è, questo, il quaderno della serva?”, intimando all’alunno reprobo di procurarsene uno più grosso e, se il malcapitato provava a giustificarsi con le risicate risorse finanziarie famigliari, gli urlava “allora, fatti dare un sussidio dal sindaco del tuo paese o dal parroco”.
A Giuseppe Circhetta da Vaste, seduto da solo in un banco nei pressi della cattedra, il quale, approfittando della vicinanza, quando il professore M. portava i compiti corretti, gli chiedeva in anteprima il voto da lui riportato, replicava subito immancabilmente “ti ho messo uno meno, che vuoi di più, pezzo di fesso”.
E, a Oronzo Ruggeri da Giuggianello, il quale raggiungeva, ogni giorno, Maglie con la sua bici, però preferendo, talora, non venire a scuola, bensì andarsene in camporella (nnargiare o salare, in dialetto), Macrì, al suo ritorno in classe dopo l’assenza, chiedeva, accennando un sorrisino “Rugeri (con una sola g alla francese), che hai fatto ieri, sei andato a caccia?”.
Quanto ai rapporti diretti con me, il professor M., durante le interrogazioni e in presenza di qualche incertezza nelle risposte, aveva l’abitudine di tirarmi verso la lavagna e sbattere, sia pure dolcemente ma ripetutamente, la mia fronte sulla dura superficie scura, ripetendo “se non te lo imparo io il francese, non te lo impara nemmeno Domineddio”.

Come inizio, tre lustri di vita, penso di poter dire, tutti all’insegna dell’attivismo e della voglia di conoscere; del resto, pressoché analogamente si sono susseguite le stagioni successive e ancora adesso non mi sento mai completamente pago.
Nondimeno, in conclusione, mi ritengo fortunato: non ho accumulato né tesori, né palazzi, né dovizie e, però, ho avuto il privilegio di portare e accumulare dentro di me un notevole patrimonio immateriale, fatto di persone, conoscenze, esperienze, luoghi.
In cima e primo punto di riferimento e valoriale rispetto ai risultati raggiunti, la mia famiglia, con mia moglie, i tre figli e i cinque cari nipotini.
Per tutto quello che ho cercato, voluto, raggiunto e conseguito, da credente e riconoscente, esprimo un grande grazie a Colui che è posto al di sopra di tutto e di tutti e, naturalmente, ai miei genitori Immacolata e Silvio.

Rocco Boccadamo