di Antonio Bruno Ferro –

Faceva freddo. Questa è la prima cosa che mi viene in mente quando penso al Natale degli anni 60, quando mi sentivo addosso il clima di quei giorni e le scorribande di noi bambini, in attesa dei regali che però, sarebbero arrivati solo per il 6 gennaio con l’arrivo della befana.
Intanto Nino il bidello, della scuola elementare “Michele Saponaro” nell’omonima via, ci faceva capire che qualcosa stava per accadere, poiché noi bambini, osservavamo la costruzione di un grande piano rialzato fatto di tavole, oltre che l’arrivo di ceppi di vite alberello pugliese che sarebbero stati poi inchiodati su quelle stesse tavole. Poi arrivavano i giornali che Nino metteva in una vasca piena d’acqua con farina, e con la disposizione dei giornali inzuppati su quei ceppi di vite, gli stessi ben presto prendevano la forma di incantevoli Montagne. Ma la cosa che mi faceva impazzire, era l’arrivo del muschio, che trasformava quelle pagine di giornale in verdi campi. Poi una bella carta azzurra con le stelle e i rami di Pino ai lati. Arrivavano infine i pupi di creta più piccoli insieme a quelli più grandi in cartapesta. E quelle montagne divenivano abitate da pastori, mercanti e artigiani di ogni tipo.
Al centro la grotta con il bue e l’asinello, la Madonna e San Giuseppe ma senza Gesù Bambino, doveva ancora nascere e lui sarebbe arrivato solo la notte della vigilia di Natale, ma quel giorno io e tutti gli altri bambini e bambine, saremmo stati a casa per le vacanze di Natale e non avremmo potuto vedere li quella nascita. L’avremmo vissuta la notte di Natale per la veglia in Chiesa oppure, se non fosse stato possibile prendere parte alla funzione, a casa con una processione improvvisata a cura delle nonne tenutarie della tradizione religiosa della famiglia.
Ma molto prima il maestro preparava le nostre performance per la recita di Natale, dove avremmo visto la partecipazione dei nostri genitori. Ricordo che un anno preparammo una danza, in collaborazione con la classe femminile. Era giunto il tempo dei primi sguardi e sorrisi, era dolce quel tempo in cui ero bambino ma mi sentivo una persona, proprio come adesso.
La recita di Natale, così si chiamava, la ripetevamo nella Parrocchia, in Chiesa, con canti e poesie e sonetti dialettali. “Ha rriatu Natale, nu ssacciu cce fare, me piju la pippa e me mintu a fumare”. Ricordo la prima volta che ascoltai questo sonetto e ho ancora viva la sensazione di incomprensione del senso di questi versi. Poi li ho interpretati come una rivolta alla festa a tutti i costi, come un quieto e tranquillo accettare una continuità, anche per quel tempo di Natale che rivoluzionava il normale andamento della quotidianità.
La Parrocchia e la Scuola, e poi le vetrine dei tabaccai e quelle delle cartolerie e mercerie addobbate a festa e le passeggiate per gli acquisti con tutta la famiglia.
In Chiesa c’era davvero tanta gente, tutto il paese, e non c’era posto a sedere se arrivavi puntuale. Andavamo un’ora prima per prendere i posti e per vedere quelle luci sfavillanti, e il presepe, e poi i preti con tutte quelle casule o se preferite pianete con colori sgargianti e alla fine della funzione tutti in fila per baciare Gesù Bambino.
Il maestro ci faceva preparare la letterina di Natale, che io e le mie sorelle mettevamo sotto il piatto di papà, che con meraviglia si accorgeva della presenza di quel gonfiore. E noi, alla presenza dei nonni, leggevamo quelle letterine che inducevano i presenti a farci dono delle 100 lire e dei baci e abbracci di quell’affetto sincero che non chiedeva nulla in cambio.
Finito il pranzo di Natale, tutti a giocare e a goderci le vacanze con il privilegio di poter alzarsi tardi la mattina.
Natale al cinema, il film, le code alla biglietteria, il cappotto e la sciarpa e il freddo, sempre quel freddo che ti entrava nelle ossa e ti faceva venire voglia di essere stretto forte forte dalla mamma.
E la sera, dopo tutto questo, a letto per ricordare, sognare e ringraziare di quella bella vita che facevi, della bellezza di stare assieme a mamma e papà, le sorelline e ai nonni, della gentilezza del maestro e dei compagni. Una bella vita che non dimentichi mai più perché è Natale… non soffrire più.
Antonio Bruno Ferro