di Marcello Buttazzo

Da giovani ritenevamo romanticamente che le pregnanti questioni sentimentali e affettive fossero le principali mansioni antropologiche degne di rilevanza. Da giovani pensavamo con il cuore rosseggiante d’amore che le nostre regine dovessero avere gli occhi di cielo, di mare; d’ogni stella facevamo fruscio, suono, melodia, elegia. Idealmente giornonotte innalzavamo sperticati inni di lode alle nostre muse adolescenti, che erano fulgide e scintillanti; esse ci perdonavano ogni cosa. Perfino la vita. Col trascorrere del tempo abbiamo capito, però, che altri aspetti più prosaici, come quello economico, marcano e determinano i destini dell’umano sentire. L’economia sostanzia di sé ogni nostro comportamento, ci guida, ci limita, ci condiziona, ci spaventa, ci entra nelle ossa e nel sangue, diventa essa stessa ossa e sangue, codificando paradigmi relazionali. Quante volte ci siamo sentiti cittadini estranei di questo mondo supersviluppato, di questo villaggio globale improntato alla massimizzazione del profitto, al culto estremo dell’economia? Quante volte ci siamo sentiti espulsi o, comunque, messi ai margini al cospetto di dominanti meccanismi iperefficientistici?
Nonostante le premure riformistiche ( o controriformistiche?) del governo Renzi, il nostro Paese, da un punto di vista lavorativo, naviga in un mare di incertezze.
Nonostante alcuni proclami trionfalistici dell’ex “rottamatore”, gli ultimi dati s’appuntano su una precarietà effettiva e di esistenze, che tende a raggiungere le creste più alte degli ultimi decenni. La situazione è critica; purtuttavia, non possiamo ammainare le bandiere. Dovremmo guardare oltre gli stretti e angusti giardini.
È l’ora, forse, di uscire all’aperto e di tornare a proteggere ciò che appartiene ad ognuno di noi. In questi ultimi anni, fra varie titubanze, continua a muoversi un movimento plurale di donne e di uomini con l’intendimento di valorizzare l’inestimabile patrimonio e giacimento dei cosiddetti beni comuni. L’acqua pubblica, la cultura, l’accesso ad Internet, le ricchezze energetiche, ecologiche e paesaggistiche, il gusto consapevole della libertà, dovrebbero essere risorse ad appannaggio di tutta la comunità. Il “bene comune” è carne viva, vibratile, pratica, da mangiare tutti assieme, da dividere con mani compagne, in una mensa imbandita di comprensione. Il “bene comune” non è certo quello che ci ammannisce una deteriore vulgata.
Insomma, non è quell’esercizio retorico ostentato come puro belletto da certi politici , che sanno annaspare fragorosamente nei frequentatissimi salotti televisivi di prima e seconda serata.
Il “bene comune” da condividere è un potente antidoto contro il virus dell’individualismo sfrenato, contro “la cultura dello scarto”, di cui parla papa Francesco.

             Marcello Buttazzo