di Marcello Buttazzo –

Leggere, scrivere versi, come un irrinunciabile “mestiere di vivere”, per affrontare l’esistenza in tutte le sue diverse tonalità. La poesia è maestra, madre, compagna, che ci conduce sui selciati variabili e multipolari dell’alterna e incerta ventura. La lettura e la scrittura, tra le altre cose, ci consentono di entrare in sintonia con universi diversi, ci permettono di scandagliare a fondo il nostro sé. Senza, peraltro, che questa meticolosa ricerca si chiuda in un solipsistico e sterile percorso, teso solo a mostrare i “benefici”, i “pregi” e i “belletti” del proprio Ego smisurato. Tutt’altro. La poesia e la scrittura sanno e devono parlare a tutti, devono narrare non solo della nostra interiorità, ma anche e soprattutto della vita infinita degli umani, della Natura, del soffio di vento, del campo di grano, del sangue di chi lotta per mondi più praticabili. La poesia deve evocare e denunciare le violazioni perenni e ferine che subisce questa Terra martoriata, antropizzata e sporcata dalla mano potente e prepotente dell’Homo sapiens sapiens. La poesia deve essere musica, passo leggero ed elegante, pensiero ardito, poderoso e soave. Deve essere una discreta lira, che canta di tutti. E per tutti. Deve cantare soprattutto degli esclusi, dei senza voce, degli ultimi. La scrittura deve avere un incedere originale, un procedere unico, irripetibile. Essa deve essere una gemma preziosa, un valore aggiunto alle cose del mondo. Un mio fraterno amico poeta, Vito Antonio Conte, in questi brevi versi della sua ultima raccolta “Perse tra le carte” (Luca Pensa Editore), lo dice chiaramente:

Poesia
È staccare la spina
Tagliare ogni legame
Trovare il sé
Farne parola
L’unica possibile
Per l’altro da sé
E (comunque- prima)
Sempre vivere