“Passaggi temporali” di Maria Grazia Galatà
di Marcello Buttazzo –
Una realtà altra e
s’alza alta la nebbia
sul teatro di una città
assopita
mi drappeggio
un orlo di
vento
La poetessa e fotografa Maria Grazia Galatà di origine palermitana si occupa di critica letteraria e collabora con “Il cucchiaio nell’orecchio”, con “Mentinfuga”, con “Limina Mundi”, con “Zeta- Rivista internazionale di poesia e ricerche”, con il “Segnale: percorso di ricerca letteraria”. Ha vinto numerosi premi e ricevuto riconoscimenti. Ha pubblicato molte opere di poesia. Ultimamente (ottobre 2024) Campanotto Editore ha dato alle stampe “Passaggi temporali”, nuovissima raccolta di versi di Maria Grazia Galatà. La poesia è un accadimento formale, stilistico, sostanziale, virtuoso, a volte terapeutico (ma non solo, non necessariamente), che ci fa scandagliare a fondo i vissuti, mettendo l’io poetico in rapporto con un tu, per approdare ad un noi, che è impegno alacre e paradigmatico. Si scrive per innumerevoli ragioni, per gioia, per ebbrezza, per travaglio, per sbrecciare la noia, per metabolizzare la melanconia, per assurgere ad inedite aurore di splendore. Nella prefazione di “Passaggi temporali” il filosofo Vincenzo Cioni con grande acume scrive: “Di quale offesa ha sofferto, soffre Galatà? È un’offesa, un dolore patito che ha molte sfaccettature, tutte appuntite, un dolore che è al cuore della sua poetica”. E, in effetti, il dolore è quel sommovimento interiore, che reca una memoria, un Dna di vissuti. Il dolore è come l’amore, quel motore mobile che ci fa esistere e traversare i selciati dell’incerta ventura con contegno, con decoro. Il poeta è un esemplare di Homo sapiens sapiens, che sa predefinire e prescegliere i vissuti, sa idealizzali, sa cantarli, sa purificarli, sa sfrondarli dal vano. E così la scrittura di Maria Grazia Galatà è, senz’altro, elegante e sostenuta, epperò priva di eccedenze che possano appesantire il verso. La sua non è solo poesia della ricordanza, ma anche del presente, dell’evenienza quotidiana. Certo, il dolore è un cimento da non disdegnare, è un trampolino da cui partire, per edificare la poesia vera e incidente. Aldo De Francesco, scrittore e fine intellettuale salentino, deceduto qualche anno fa, scriveva che “la poesia è religione del dolore; o un poeta sarebbe solo la caricatura del poeta, sarebbe una caricatura afona che si sforza di fare delle boccacce, laddove il poeta è una persona come gli altri, ma che ha ricevuto in dono la capacità di gridare o cantare la sua sofferenza e/o la sua gioia. Il sentimento del dolore può avere una mansione empatica e può tirare in ballo crani rotti e bambini annegati. Quei fratelli che lasciano la vita nel freddo del mare o nella fredda terra, che ci fu madre. Galatà in “Passaggi temporali” ci dona una poesia di danze d’amore che penetrano nell’incanto a scontare solitudini. Gli elementi naturali si mischiano a stati d’animo esistenziali, sicché ci accorgiamo che “cammina un inverno/attraverso il mare e/ inquietudini tra la nebbia/ sono disseminazioni/allontanano la rotta degli uccelli/al crepuscolo”. Quella di Galatà è una poesia della melanconia, che può essere ricondotta alla lirica greca (come puntualizza rigorosamente Vincenzo Cioni). Sfogliando i versi di “Passaggi temporali” si resta sbalorditi dalla bellezza stilistica del verso snellito. Compaiono atmosfere mutevoli come carezze e pianto al suono di un pianoforte. E ciò che rassicura e conforta il cuore e che la poetessa riesce a trovare anche nel dolore spiragli barbaglianti di luce: “la musica abbracciava il dolore/il cammino eterno di un viaggio/ e la rosa triste al vento”. Nella raccolta di Galatà una variante preponderante è il tempo, che passa, scorre, trascorre, lambisce gli elementi (“questo inesauribile scorrere del tempo/basterebbe ascoltare il silenzio dopo un tuono/vieni a vedere/ quando l’acqua copre la pietra/ vieni a vedere/le luci in un’alba surreale”. Potremmo asserire che la poesia di Galatà sia poesia della cura, del prendersi cura, perché ci si può accudire accanto ai gelsomini, di fianco ai gerani in pieno sole, fino a scoppiarti il cuore. Le reminiscenze, il presente e l’immaginario poetico di Galatà si sostanziano, altresì, di citazioni di altri poeti, di maestri della letteratura, che vengono invogliati a spezzare con mani compagne il pane cereale della poesia. Alla assise compartecipativa della poesia, che è fonte, sorgente di vita, Galatà invita Carlo Emilio Gadda, Paul Celan, Pier Paolo Pasolini, T.S. Eliot, Samuel Beckett, Luigi Pirandello, T.Arsenij Tarkovskij. E Theo Angelopoulos a declamare la parola imperitura dell’essere. Versi della premura. La poetessa è un’anima errante, vagolante come la luna, peregrina, va di paese in paese. “E un lembo di nuvola/sui riflessi del lago/narra una storia”. La poesia è vivida d’incanto, sicché Maria Grazia può meditare sotto un cielo notturno su un anelito di vento, tra lo spazio sospeso d’una rima, aspettando un’alba malata di ricordi e d’infanzia. Per finire vorrei dire che mi hanno particolarmente colpito alcune figurazioni liriche di efficace effetto (“Il mormorio del vento/tra/l’/acqua/è pianto/di madri senza figli; ”Le rose d’ombra e profumi/ si confusero/in una veloce lentezza”; “trovarmi quando la notte/è già passato/ come d’incantamento”).
è scura la sera
con gli occhi ancora infuocati
la premura disarmonica di scrivere
un momento di indescrivibile
frammento tra una quercia e
la luce afa di un giorno d’agosto
così calava un giorno di spiragli
orfani di meraviglie.
Marcello Buttazzo
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