di Franca Alaimo

Afferma Vittorino Curci (non senza implicazioni socio-politiche, laddove si consideri il profondo legame fra un’ideologia e il suo linguaggio) che l’eliminazione di tutte le maiuscole, visibile nelle più recenti sillogi, corrisponda ad un rifiuto di classificare all’interno di una qualche gerarchia le parole, avendo esse il compito di raccontare (adeguando il loro ritmo a quello del pulsare del mondo nell’interiorità del poeta) persone, cose e accadimenti che lo legano non solo al vivo presente della comunità di appartenenza, ma anche al passato recente così come al più lontano. 

Affiorano essi dal teatro della sua psiche con vivezza abbagliante, circonfusi di un’assolutezza, che non deriva da un processo d’astrazione o trasfigurazione, ma piuttosto dalla volontà di arrestarne la dissoluzione. Primi, fra tutti, il padre e la madre che Curci chiama i sassi della sua terra sacra (“da questa terra santa / ho raccolto due pietre. / sono mie e mi sembra di rubarle. / questo è mio padre / nel fermo immagine / di un luogo senza nome. / questa è mia madre / l’asseverante parola del suo dio / scomparso dalle chiese”), quelli con  cui tenere in piedi, giorno dopo giorno, l’edificio della propria vita, e da sempre così devotamente custoditi da immaginare il tempo prima dell’anno (il 1952) del suo venire al mondo, abbracciando la breve esistenza di una sorellina mai conosciuta e “ricordando” perfino il lutto doloroso della madre, con quel balzo all’indietro di uno slancio amoroso che ricorda il Caproni de “Il seme del piangere”.

L’io del poeta, teso, dunque, a configurarsi come un moto di espansione a raggiera includente le esistenze dei vivi come dei trapassati fino (con un effetto del tutto surreale) a vedere “sfrecciare tra gli alberi / un giovanissimo Leopardi in bicicletta”, si fa un logonauta  viaggiante, attraverso l’immaginazione della parola, anche nel tempo che non fu suo, così da riconoscersi nell’altro e dirsi al suo posto, in un incontro, spesso spiazzante, tra un tu ed un io sovrapponibili; e, talvolta, con un inusitato effetto filmico, tra il suo io narrante e il suo io rievocato e oggettivato in un personaggio che calca la scena allestita dalla memoria.

Ma è soltanto nel momento in cui l’infanzia trapassa dalla dimensione biografica a quella filosofico-concettuale, implicando la ricerca dell’origine (o infanzia) del mondo e della Parola, che essa si trasforma in mito, consegnandosi all’ampiezza di un sogno conoscitivo senza confini spazio-temporali. Per questo il prefatore Milo De Angelis scrive che l’infanzia di Curci “È una stagione vivissima che non possiamo situare nel passato, che ci raggiunge e ci supera, a volte ci aspetta”.

Il poeta (che fa con la parola) sembra assumersi, infatti, il compito di riparare l’offesa (“una punta di lancia nel costato”) del  divenire dirigendolo alla purezza originaria del mondo in una sorta di sacrificio cristico che risacralizzi ogni cosa. Non credo sia un azzardo affermarlo alla luce di una testimonianza millenaria che identifica l’infanzia del mondo con il pronunciamento del Verbo, e, dunque, con un atto di liturgia, a cui, fra l’altro, sembra alludere il titolo della raccolta di Curci del 2017: Liturgie del silenzio.

“È il sogno della poesia allo stato puro, come afferma lo stesso poeta, svincolato da ogni funzione utilitaristica (…) Il mondo oggi, più che mai è pieno di linguaggi funzionali che raccontano pezzi sempre più piccoli di realtà”. Io – recitano i versi di un testo, tratto dall’ultima raccolta: Fra lingua e voce “vagheggiavo una bellezza disadorna / una mano invisibile che scrive. / come vedi, in questo allelluia di seduzioni / e lontananze / non mi faccio incantare / dalle sirene del consumo immediato. / come vedi non mi sono di me dimenticato”.

Se dunque il divenire del mondo attende l’infanzia, la poesia di Curci, mossa da questa tensione, non può che ricercare in sé un metodo di avvicinamento. Da ciò deriva l’incessante mobilità del suo dire, la sua irrudicibile, inquieta indagine, a volte “oscura e ineffabile come la verità”, la fitta rete di rimandi a un bagaglio culturale via via sempre più ampio, la presenza di versi variegati e come affamati di senso, che caratterizzano l’itinerario creativo di questo autore, come bene vien fuori dalla lettura di questa auto-antologia che raccoglie testi che vanno dal 1997 al 2020 (pubblicata dalla casa editrice milanese “la Vita Felice” nel mese scorso), sebbene l’itinerario suggerito al lettore sia capovolto, quasi a suggerirgli  di prendere atto di quanto sia accaduto prima dell’attuale approdo.

Non è cosa di poca importanza annotare come il linguaggio più maturo dell’autore, ubbidendo al fascino della costruzione geometrica e dei rapporti di contrasto e ripresa dei temi, sui quali si innestano improvvise variazioni e temi secondari, rimandi in qualche modo al fraseggio jazzistico, in una sorta di osmosi fra la pratica letteraria e quella musicale. Si legge, infatti, nella Bibliografia che “attualmente, pur dedicandosi molto a una scrittura di ricerca con forti ascendenze surrealiste, a livello performativo ama esibirsi in più discreti reading poetici – nei quali esegue anche partiture sonore – insieme con piccole formazioni musicali, oppure in completa solitudine, accompagnandosi con un sassofono”.

Il discorso fatto finora non può tralasciare (la qual cosa è resa ancora più evidente dell’itinerario a ritroso scelto dall’autore nella disposizione dei testi) l’aspetto della denuncia sociale che accompagna l’esperienza del mondo di Curci, che “in questa accademia del dolore”,  nella quale “la grazia duratura del mondo / è scolpita sul viso / dei bambini”, ha imparato come sia stato fondamentale “il bene / di chi credette in noi, le donne e gli uomini / che ci tenevano in braccio / sul treno in corsa dell’avvenire”.

A proposito di Un cielo senza repliche, pubblicato nel 2008 da LietoColle, Angela Paradiso (che ha presentato nell’anno accademico 2019-2020 la tesi di laurea: Il poliedrico ingegno di Vittorino Curci) scrive (citando più volte alcuni passaggi di una recensione di L. Pagano) che i testi di questa raccolta “stridono rauchi nella denuncia sociale di un vivere quotidiano difficile” o “struggono nella narrazione di un ambiente devastato” o ancora “vibrano di immensa dolcissima nostalgia” e infine “tacciono attoniti, sotto un cielo che non concede repliche”.

Bisogna subito premettere, però, per evitare di cadere nella trappola di un’interpretazione sentimentale, che il luogo raccontato, il paese nativo di Noci, in provincia di Bari, se da una parte appare fortemente caratterizzato e riconoscibile nei suoi aspetti paesaggistici e culturali, vuole essere, innanzitutto, l’emblema di ogni altro luogo, ché l’aria che respiriamo, come recita un verso del poeta, è la stessa per tutti.

L’approccio al tema è segnato dalla consapevolezza della sconfitta degli ideali, tanto è vero che, nella silloge più tarda: Il pane degli addii del 2012 (La Vita Felice, Milano)  il titolo del testo d’apertura rimanda ad un celebre verso leopardiano, tratto da A Silvia: “Questo è quel mondo”. In esso compare una data: il 3 Novembre del ’57, anno in cui venne a mancare Giuseppe Di Vittorio, nato a Cerignola, eletto quattro anni prima Presidente della Federazione Sindacale Mondiale. Le richieste sociali sempre le stesse: un “pezzo di storia”, “tranquillità” sociale, “un pane certo”, una “dimora di realtà / e case fiancheggiate da alberi, da sempre tradite “per le trame di un potere muto”.

La realtà di Noci, svuotata dalle morti e dall’emigrazione, rappresenta con ogni evidenza tutto il Sud misero del mondo, in cui ancora le immagini registrate dall’occhio sono quelle di “un pavimento lercio, / i fornelli a gas / qualche sedia di plastica, un tavolo”, come se “le menti offuscate” ci riportassero indietro di un secolo; con l’aggravante della presenza di un “quinto stato”, quello dei migranti: “rumeni polacchi indiani / sono tutti marocchini / che vengono a mangiarci l’aria”,  avvertiti come i nuovi nemici da combattere in una cieca e infruttuosa lotta fra poveri.

Più che evidente la formazione politica di Curci. Tutto questo a sottolineare non solo i tanti apporti culturali convogliati in una personalità di grande spessore come quella  dell’autore pugliese, ma anche l’urgenza etico-espressiva di una poesia, che, aperta verso ogni esperienza reale, e libera da ogni recinto tematico, da ogni confine tra generi e forme letterarie, si offra quale strumento totale di testimonianza.

L’ampiezza, anche ideologica, del compito non confligge, però, con la minuzia dei dettagli (“perché l’opera … può mettere a fuoco i dettagli pur guardando le cose da lontano”) a cominciare dal paese di Noci, dove l’autore è nato e vive, che viene raccontato con obiettività  documentaristica e gusto pittorico: i boschi, la nebbia, i fiori di gelsomini, l’odore di mosto che sale dagli scantinati, le voci di una lingua morta, la stazione, la neve, i fragni centenari, la campagna, il bar aperto di notte con i suoi avventori, il “fiammeggiare dei papaveri sull’erba”, “uno straripare di erbe e fiori / dalla terra nera”, “le briose cornacchie del campanile”. Un generoso coinvolgimento sensoriale  che ricorda certe pagine proustiane; e, all’interno di questa scenografia, i piccoli oggetti del passato, alcuni dei quali appartenuti alle persone di famiglia: “scarpe spalmate di grasso”, una “Kodak a soffietto”, i quaderni della sorellina, “le bottigliette mignon di liquore / sul banco della scuola”, “le matite” di via Tomacelli, a Roma, (nei paraggi dell’Accademia di belle arti di via Ripetta, frequentata da Curci nei primi anni ’70, prima di dedicarsi alla poesia).

E, tuttavia, la vita di provincia, evocata da Curci niente ha a che fare, come sottolinea Giuseppe Scaglione (wordpress.com 2021/04/19) con la ben diversa, istrionica “paesologia, sospesa tra l’essere una moda e il contemplare la cenere, per dirla con Mahler. Nei versi di Curci invece il paese (con le sue tradizioni e contraddizioni), viene piuttosto elevato a spazio etico di conoscenza, e laboratorio di situazioni”. Esso anima quelle che l’autore definisce cronografie, cioè scritture del tempo vissuto, che danno vita, grazie alla presenza di un’umanità autentica, insieme fragile ed eroica, ad un epos contadino: “La lingua che ho rubato è per voi / per le vostre bocche asciutte, contadini. / Esistete, non abbiate paura del fuoco / e dell’acqua, / nel tempo di una fedele corsa / usate pure l’infinito / per scansare le insidie dei verbi. / Fino a che non sarà consumato / l’anno, non potrete sbagliare: / quello che uno apre e l’altro chiude / produrrà la stessa ombra.”

Del resto l’intonazione epica appare come connaturata alla personalità di Curci, il quale da sempre ha sposato il noi come punto di vista, in nome di un ardore empatico con la storia di ogni uomo, ma anche con gli uomini e le vicende della Storia, nella convinzione che ogni generazione debba lasciare una sua eredità esperienziale a quella successiva perché operi con necessità e sapienza. Esprimendosi sul rapporto che intercorre fra concezione poetica e memoria storica, Curci ha affermato che “tutto quello che chiamiamo tradizione è in parte un cimitero e in parte una miniera d’oro. Nel cimitero lascio una preghiera, nella miniera d’oro invece scendo sempre volentieri per riveder le stelle ‘più ricco di prima’”.

È questa assunzione della tradizione come gesto insieme di recupero e punto di partenza per una perenne rivoluzione che caratterizza la poesia di Vittorino, e non importa sapere che il tempo e la condizione umana siano provvisori, che “la realtà non corrisponde a niente”, ma opporre alla noia e ad ogni fallimento che ci costringe a ricominciare daccapo, l’atto creativo quale operazione etica ed estetica di umanità e speranza.

Franca Alaimo, 22 aprile 2021