La primavera e la poesia
di Marcello Buttazzo –
Sabato 21 marzo, la primavera ritorna, ancora una volta. Giornata mondiale della poesia, che non si può celebrare doverosamente con incontri, con reading, con letture condivise fra gente, fra amici, fra compagni. Questa emergenza sanitaria, d’un subdolo agente infettivo che colpisce, ci ha impedito di ritrovarci tutti assieme. Ma il significato più vero e più profondo di questa Giornata è l’enunciazione della parola, che evoca, che emoziona, che diventa leggerezza, soavità, sangue, ragione delle stelle. La parola che edifica ponti di comunanza e di conoscenza. La parola che sa rispettare le alterità e le diversità. La parola che sa prendersi cura delle pene, delle melanconie, delle gioie, delle ebbrezze, dei dolori, delle lacrime. La parola sa consolare le lacrime e sa ricucire con ago d’amore le ferite. La parola sa donare amore incondizionato, mare quieto, cielo illeso e sconfinato. La Giornata della poesia si celebra con l’avvento della primavera, perché questa è la stagione delle attese e delle speranze. Il mandorlo e il susino si vestono di sposa, l’albicocco si colora, il ciliegio comincia ad ardire d’amaranto e, nei prati, fiori di campo giallini fanno da contorno ai primi papaveri, che rosseggiano per nostra beatitudine. La Giornata della poesia e la primavera sono sorelle, perché la poesia ha bisogno di sole, della lucentezza dei buoni intendimenti, della passione dell’impegno civile per poter furoreggiare. La poesia è un esercizio di resistenza e di resilienza: è fuoco che non si spegne mai. La poesia non è un trastullo d’un attimo, non è un passatempo per individui annoiati. No, tutt’altro. La poesia esige “mestiere di vivere”, abnegazione, devozione, cura, apprendistato, approfondimento. La poesia vuole amore sbandierato al vento, al vento tiepido d’una stagione che passa. In questi giorni di smarrimento, di tristezza, di dolore, di segregazione forzata, custodiamo le pagine e i versi dei nostri grandi autori, i padri della nostra lingua. E approfittiamo, in questo tempo di fragilità, per prenderci cura dei nostri vecchi, i padri, le madri, i nonni. Leggiamo loro versi di Ruggeri, di Pavese, di Gatto, di Penna, di Bertolucci, di Caproni, di Verri, di Toma, di Bodini, di Bellezza, di tanti altri ancora. Questi grandi poeti sono i padri veri della patria, loro sanno dare significato e sale alla vita. In questi giorni di reclusione indotta, di isolamento, la rivoluzione tecnologica di Intenet ha svolto un ruolo sussidiario, che ha sostituito le serate di lettura pubblica nelle sale, nelle associazioni culturali, nelle librerie. Alcuni intellettuali esprimono un malcelato dissenso nei confronti del proliferare dei social e di altre diavolerie elettroniche. Eppure, strumenti pacifici, come Facebook, se gestiti con parsimonia, se maneggiati con cura e discernimento, possono favorire e incoraggiare la diffusione capillare della parola e della poesia. Il 21 marzo 1931, a primavera, nasceva Alda Merini. Nella raccolta “Vuoto d’amore”, silloge pubblicata da Einaudi e curata da Maria Corti, la grande poetessa dei Navigli canta così:
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange la sera.
Forse è la sua preghiera.
Marcello Buttazzo
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