La poesia “nata sincera” di Cosimo Russo
di Mauro Marino – Da un po’ di tempo la mia frequentazione dei poeti e della poesia muove il desiderio di tentare di comprendere l’intimo perché della scrittura. Molto devo ad Anna Maria Ortese e al suo “Corpo celeste” dove tra le tante illuminazioni trovo: «Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi. Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato: deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate».
Adesso ho tra le mani “Per poco tempo” la raccolta di versi lasciataci da Cosimo Russo edita da Manni (2017) nella collana “Pretesti”. Già, un “pretesto”, questo è la poesia!
Scrivere, dire, cantare le cose della vita – anche le cose più banali, le cose condivise anche quelle risapute – connotandole con l’unicità del proprio sentire, del proprio irriducibile timbro. Trovare il suono delle cose, farsele compagne le cose, accudirle nominandole. Stare al Mondo perché il Mondo possa svelare attraverso noi il suo magnifico segreto.
“Tutti i fiori che conoscono il sole / sono miei amici. / Ora mangio polline / bevo luce”, scrive Cosimo Russo e posso già ritenermi soddisfatto nel mio cercare ma poi ancora leggo: “Alla fine mi sono fatto / Terra, ulivo, aria di meridione / scevro d’ogni ambizione sarò pietra di muretto / di confine”. Sì, in questo mangiare polline, in questo bere luce, in questo farsi Terra, in quella mancanza di ambizione sta il poeta, il suo divenire nella poesia.
Com’è importante un libro di poesia: un “regale spreco” la pagina, potersela permettere, con tutto quel bianco che accoglie e custodisce il “verso”. Versi soltanto, alcune volte pochissimi, sorprendentemente pochi e in quel poco c’è l’intero, l’eterno – pieno – a significare, a lasciare senso allo stupore.
Il bianco: “C’è sempre il bianco nei miei giorni / a pedinarmi per ore” scrive Cosimo Russo, sta lì, tutto quel bianco, a celebrare il trionfo dell’essere poeta nell’incontro con l’altro. Il poeta “disperde [i suoi] versi nel tempo” a “tentoni” spinge “le mani avanti per” orientarsi; è sempre nel tentativo il poeta, nasce sempre, stretto “nell’infinito presente”. Quante risposte da Cosimo al nostro chiedere conto alla poesia e al poeta del suo perché. “Forse la poesia” scrive Russo “nata sincera dice il vero quando setaccia la vita e aspetta il tuo inconsapevole passaggio per illuminare i luoghi in cui sei stato e salvare qualcosa di te e del ragazzo e del bambino che ti hanno preceduto”.
In questo è il segreto: avere occhi aperti all’accorgersi, al mutare del Tempo nella durata della propria sensibilità: “Non ebbi paura a cambiare la carne / allo scorrere del tempo, / ne feci scorsa dura / allo sferzare furioso del vento / sulle guance indifese / e quando qualcuno mi guardava / e al tempo stesso / non mi vedeva più, / io ero già un altro”. Stare e fuggire, esserci e mancare, irrequieti, ragazzi e bambini nel poco tempo che ci è dato sapendo che “Le poesie più belle mai le ho scritte / le ho lasciate lievitare nello stupore dello sguardo / custodite nello scrigno del non detto / prigioniere della gabbia amorevole del cuore / orfane di confine e di parole / le ho nutrite di silenzi”.
Mauro Marino, 28 settembre 2017
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