La poesia/corpo di Giuseppe Semeraro
di Marcello Buttazzo –
Quanto tempo impiega un corpo
a perdere un’abitudine
a un bacio, a un abbraccio
alla carezza di un bambino?
E non per i nostri vicini
per i fratelli, i nostri cari,
ma per i lontani, gli sconosciuti
per gli esiliati, i dispersi
chi è mangiato dalla solitudine,
tutti quei corpi che sfioriamo
agli angoli di uno sguardo distratto
senza una stretta di mano
senza un bacio
senza un abbraccio
diventando sempre più lontani
sconosciuti, infreddoliti e persi.
Giuseppe Semeraro è attore, regista, poeta. Ha lavorato come attore per il Teatro della Valdoca e con Danio Manfredini. Nel 2007, è stato fra i fondatori della compagnia Principio Attivo Teatro, dirigendo, tra l’altro, come regista “La bicicletta Rossa” (premio Eolo 2013). Nel 2015, ha realizzato lo spettacolo “Digiunando davanti al mare”, ispirato alla figura di Danilo Dolci. È autore di diversi libri di poesie. I suoi testi e le sue poesie sono parte fondamentale del suo lavoro attoriale in reading, spettacoli ed eventi dedicati alla parola detta. In questi anni, diverse volte ho incontrato Giuseppe Semeraro, sovente al Fondo Verri. Mi ha sempre affascinato la sua indole pianamente serafica, la gentilezza del suo carattere, l’affabilità, il suo saper entrare in sintonia con l’altro. Una bontà d’animo spiccata, che poi è il cimento paradigmatico del suo essere.
Ricordo che Mauro Marino, su un mattinale d’una decina d’anni fa de “Il Paese Nuovo”, scriveva che “la poesia è dono”. Ebbene, per Giuseppe la poesia è una lieve scintilla da elargire a tutti. Come avrebbe cantato Alda Merini, una grazia “da donare all’umanità “. Semeraro ha appena (novembre 2021) pubblicato un nuovo scritto, una raccolta di versi dal titolo “da qui a una stella” (l’infinito scritto sul corpo), edita da AnimaMundi, con in copertina un acquerello di Fabio Inglese. Da qui a una stella, di fatto, lo spazio è sconfinato, sterminato, sfuggendo quasi all’immaginazione. Eppure, nel nostro organismo, in seno alle nostre cellule, esiste un’informazione genetica, un codice denominato Dna, che è una matassa di splendore, una matrice di “notizie”, che, se svolto e liberato negli anfratti siderei, potrebbe arrivare fino a Plutone. “Il nostro corpo esce dal sistema solare”, afferma Semeraro. Per questa sua nuova avventura, per questa intrigante scommessa con la parola scritta e detta, l’autore ha avuto una sorta di illuminazione scientifica. È partito dalla complessità e multiformità del corpo, del genoma, macchina perfetta, alfine di sintetizzare proteine, storie, accadimenti, memorie ancestrali. Epperò, il suo vascello incantato (la parola di Giuseppe incanta) ha cominciato, ebbro di bellezza, naviglio innocente e trasognato, a navigare al largo, non ha evitato di affrontare e sviscerare compiutamente e liricamente la parola politica, arrivando al corpo politico, al corpo sociale, al corpo sacro e, quindi, come naturale e fisiologico ammarraggio al corpo poetico. Che è l’habitat, oserei dire la nicchia trofica, in cui più specificamente e con più gradi di libertà si muove Giuseppe. L’opera “da qui a una stella” si può fregiare dei mirabili testi introduttivi di Dario Goffredo e Gianluigi Gherzi. Tenuto conto che ogni nostra cellula è fatta di parole, è intrisa di poesia, e che “nel sangue è scritto ogni nostro giorno “(questa è una memoria ineludibile), Goffredo insiste: “Questa è una scrittura umana, che parla all’umanità e dell’umanità. Semeraro si interroga, da poeta, sulle cose dell’uomo, sui suoi misteri, quelli belli e quelli meno, come la capacità di uccidere o far male a un fratello, ma anche la capacità di volare o di sognare e, appunto, di fare poesia e sul mistero, sulla forza grazie alla quale “davanti a un pericolo, a un baratro/ (…) salviamo la vita a un fratello”. Gianluigi Gherzi concentra il suo fulgido intervento sulla poliedricità del corpo, ascoltato e vissuto poeticamente, pieno di voci, corpo gioia e tristezza assieme, corpo ostinato, corpo leggero, corpo mistero. Sostiene Gherzi: “Nel corpo, sono presenti tutte le nostre forme d’anima: gli dèi che ci abitano, i demoni che si muovono, la memoria della specie, il dialogo coi regni animali e vegetali che dentro ci vivono”. Per Giuseppe, le lacrime servono a purificarci, a espellere ormoni dolorosi. Il poeta sente il corpo ruvido che graffia, di notte voce che bussa alle porte, mani che portano acqua, muscoli che sollevano, spostano, reggono, creano. Al centro del corpo alloga una immensa solitudine politica. E sarà qui la battaglia. Ciò che resta di sacro ha le reliquie del nostro corpo. Le parole chiedono al corpo la carta dei respiri, l’inchiostro del sangue, il giuramento della carne. E tutta la scienza non riesce a ripetere ciò che il corpo compie in un attimo. Tra due corpi innamorati, il poeta riesce a contemplare l’arcobaleno, il viso dell’altra che dorme sul petto.
Offro alla voce un luogo, una durata
svuotando per lei tutte le stanze
offrendole tutti i vuoti del corpo
tutte le cavità che incutono tremori
possa la mia voce diventare eco e non morire
farsi canto su labbra sconosciute
possa la mia voce cercarti ciecamente
andarsene con la carezza di maestrale,
possa arrivare fino a te la mia voce
come una mano che ti accarezza al buio
possa la mia voce trovare in te un vuoto
una cattedrale altissima
il cavo della tua anima dove tutto risuona.
I versi di Semeraro sono leggeri come piume, ma sanno essere intimamente incisivi. Poesia della delicatezza, senz’altro. Giuseppe torna di notte negli occhi della musa a pescare stelle. Lui ha provato gioia entrando nel mare gelido di febbraio, quando sono nati i figli e hanno fatto il primo passo, quando gli stormi si sono alzati in cielo. Ha provato gioia per ogni fuoco acceso, per ogni piatto preparato, per ogni libro finito, per ogni abbraccio del pubblico. Parole soavi, quelle di Giuseppe. I bambini hanno negli occhi una luce velocissima. Crescono nello spirito muscoli simili a germogli. La mano di terra madre solleva dal suolo la nostra ombra. Il poeta vorrebbe seguire file di formiche. Lui, per trovare l’equilibrio, guarda un punto fisso, un albero sulla cima di una collina. E che letizia nel farsi portare il bacio dell’ape, la litania notturna della volpe, nell’imparare l’arte della vita. Nei versi di Semeraro c’è un potente anelito francescano. L’autore ama e predilige il piccolo, il minuscolo, l’essenziale. Dialoga fittamente con tutti gli esseri viventi e non viventi, con il mondo animale e vegetale, con l’organico e con l’inorganico. Lui sa che custodiamo ancora il vecchio ceppo, il sacro suono di ogni cosa nominata, parole eterne come madre, padre, albero, sole, fame, e poi amore, fratello. C’è in “da qui a una stella” la passione incondizionata per madre Terra, che solleva ogni passo del poeta, lo considera un suo filo d’erba, un suo ramo, un germoglio spavaldo di primavera. Poesia dell’impercettibile, scandagliato al microscopio elettronico del saper osservare. Giuseppe ritiene che ritorneremo pietre di nuovo in carica nel regno dei possibili, incastrati nelle vene della terra. L’autore conserva nella sua ricchissima interiorità un vibrante stupore fanciullo, quella docile ingenuità e quella innata capacità di sbalordimento bambino, che sono linfa vitale e dirimente per la sua scrittura. Lui ha la stessa fame di quand’era bambino, spesso è ancora quella fame di giocare fino al calar delle tenebre, fino all’ultima gocce di luce. E la frenesia della fanciullezza si può sostanziare anche d’una corsa al mare, un voler fare nelle spume un tuffo capriola, un arrendersi alla gioia dell’acqua, un tornare all’infanzia, per un attimo al regno del furore perdifiato. Il libro “da qui a una stella”, profondo e antropologico e lirico discorso sul corpo, si chiude con un puntuale e pungente monologo teatrale “Quarantena delirium”, in cui l’autore sottopone a critica serrata la società obesa e opulenta del marketing, devota alla deteriore filosofia del compra, usa e getta. L’ultima raccolta di Giuseppe Semeraro merita attenzione e lettura viva, una diffusione capillare, non solo perché è un’originale ricerca poetica ed esistenziale sul corpo, che soffre, che anela, che ama, che spera, che pensa, che vive, ma anche per il fatto che i versi sono ammantati di luce. Versi meravigliosi.
Bambina mia
ti porterò per mano
ancora un po’,
poi crescendo proverai vergogna
tenendomi accanto
e io ti seguirò come un’ombra
senza farmi vedere,
sarò la tua mano invisibile
ogni volta che chiuderai gli occhi
e guarderai indietro
in quella strada dell’infanzia
quando per te, per gioco
m’inventavo i nomi di ogni fiore raccolto.
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