Due ossessioni contigue
di Massimo Grecuccio –
Una lettura critica parallela di Verrà l’estate di Ilaria Caffio e di Atti minimi di sopravvivenza di Dario Goffredo
Non credo ci sia un disegno intenzionale nella publicazione consecutiva, in Spagine Poesia di Mauro Marino, di Verrà l’estate di Ilaria Caffio e di Atti minimi di sopravvivenza di Dario Goffredo. Ed è, di certo, preterintenzionale che le due raccolte, tra le quali possono stabilirsi molteplici connessioni, si pongano l’una come il contraltare dell’altra; oppure, come in un gioco a incastro, o alla somma, che l’una sia la complemetare dell’altra. Ma è davvero così? Ci sono, tra le due raccolte, aspre dissonanze, ma solo in superficie. Se si fa sedimentare il torbido, che falsa una lettura affrettata emergono fili inaspettati tra le parole della Caffio e quelle di Goffredo. Utilizzo due formule, che nel seguito si sbricioleranno. Secondo queste formule, Ilaria Caffio sarebbe l’alfiere della “euforia d’amore”, e Dario Goffredo l’alfiere di una profonda malinconia che si potrebbe chiamare “disforia d’amore”. Le vicende che si spandono nelle due raccolte, invece, sono a tinte meno unite di quel che sembrerebbe.
Tutte e due le storie, le addito come esempi di realizzazioni in versi dell’impulso autobiografico. Ho un pregiudizio, che enuncio così: autobiografico non è sinonimo di veritiero. Questo pregiudizio lo colloco come un postulato. Non fornirò, quindi, prove della caduta della verità.
Io, lettore, la verità non la conosco.
Per eccesso di presunzione, sospetto che la verità non la conoscano neanche gli “io poetici” che abitano Verrà l’estate e Atti minimi di sopravvivenza. Che gli autori siano più vicini di me alla verità ipotetica, per me lettore non importa granché. Voglio dire: la gioia, la tristezza, il dolore sono esperienze singolari, chiuse e frammentate nell’universo della persona. Il testo, che di quelle esperienze fa metafore, per via di qualità che di fretta definisco “letterarie”, può fornire al lettore il piacere del testo; può funzionare come un interruttore d’empatia che accende, di più o di meno, la condivisione di quelle esperienze singolari; può anche suscitare nel lettore emozioni non meno vere di quelle che vengono dalla vita vissuta. Tutto quello che dal testo viene, però, deriverebbe solo dal grado di verità trasposto sulla pagina?
L’inizio di Verrà l’estate ci getta nel centro di una relazione. La prospettiva è femminile: un sogno di maternità. Questo sogno è il punto di fuga. L’apertura celebra, per il tramite di una nuova Eva, un inno alla vita, un rinnovamento. La metafora dell’estate, la stagione in cui i frutti vengono a maturazione, si rivela in pieno. L’euforia d’amore investe il mondo, lo contagia. La forza dell’euforia è tale da rendere sia l’opacità che la mutevolezza trasparenti. La trasparenza è la qualità del mondo rinnovato.
L’inizio di Atti minimi di sopravvivenza ci porta oltre l’estate. Anche se non è detto esplicitamente, qui siamo nell’autunno. Un’estate c’è stata, l’io poetico l’ha attraversata; e, ora, è approdato all’autunno. Il naufrago, indenne, è impegnato, nella nuova condizione, a conservare le forze che ancora gli restano e a raccogliere gli “oggetti” che la risacca del mare dell’estate, che è stato tempestoso, getta sul litorale dell’autunno. Nelle azioni di raccolta, il sopravvissuto cerca – senza tregua – una tregua. Una pienezza c’è stata. Si è rotta, frammentandosi in cocci innumerevoli, da cui non si può più ricostruire alcunché.
In Verrà l’estate, una crepa compare subito. La discontinuità è già nell’apertura. Il sogno, nel giro di pochi versi, trasmuta rapido: prima è trasparente, poi freddo, infine di nuovo trasparente. L’euforia, seppure incrinata, riprende presto a pulsare. Basta poco, tuttavia, a rabbuiarla: che l’amato si allontani. Se l’altro non c’è, l’euforia rimbalza nell’uno e si tramuta – Muoio per colpa mia – in nero.
L’amante che si aggira in Atti minimi di sopravvivenza è perennemente fuori dal presente. È un io scisso nel nero della malinconia. Si aggira tra rovine, cerca la quiete, e il suo sguardo si volge sempre indietro. L’amante non ha interrotto il dialogo con l’amata. A lei rivolge domande, a lei propone, nella comunanza della ferita, una cura comune. Viene in mente Orfeo. Come Orfeo, non rispetta la promessa di non voltarsi. Si volta, e ogni volta che lo fa, l’amata si allontana di più, muore – all’amore – ogni volta di nuovo. Ogni giorno di più, la perdita è rinnovata, il dolore è immedicabile. Il dolore, il bozzolo dell’amante che insegue ombre.
In Verrà l’estate, se l’amato non c’è, l’amante si volge indietro, all’inizio. Il passato non è dissolto; anzi, c’è un presente nel quale il passato (mostro!) si riverbera facendolo sanguinare. L’unicità, ambita meta, dono raro, è conquista precaria. Il passato irrompe nel presente e il dolore si espande a toccare la luna. L’euforia ha delle pause. La neve, il bianco, la pace sono il rovescio dell’euforia. Alle pause, subentrano nuovi movimenti sussultori. Non fanno un’evoluzione, ma non lasciano nulla intatto. L’amante sperimenta, con invocazione dispettosa e scaramantica, l’abbandono. Poi chiede, per impulso di somiglianza, la fusione con l’amato. E, infine, il rinnovamento del cuore. Salto che implica la recisione dei legami di sangue.
In Atti minimi di sopravvivenza non c’è evoluzione, e se c’è, è ridottissima. C’è la descrizione, particolareggiata, di lunghe apnee. Ogni tanto, piccole sorsate d’aria, brevi e minime epifanie interrompono la monotonia che trattiene il respiro. Godere di un sole tiepido, sorseggiare un caffè, camminare. Gli amici, il bere. Azioni elementari. Rimedi che non aggiustano quello che non può essere più riparato. Il lavorìo di scavo non ha termine, e il continuo rispecchiarsi acceca. Alla fine, duole la schiena. Alla lunga, il male dell’anima intacca il corpo. Un residuo di vitalità istintiva-animale, tuttavia, fa alzare lo sguardo al cielo. E, da qualche parte, l’aquila è in cielo.
In Verrà l’estate il quadro è sempre piuttosto mosso. Stilisticamente questo si rflette in una forma esplosa, che solo a tratti assume forme compatte. Il racconto qui è organizzato in componimenti (strofe) di dimensioni variabili.
In Atti minimi di sopravvivenza il quadro, invece, è sempre poco mosso. Le forme, qui, sono compatte. Piccoli rifugi di strofe di dimensioni abbastanza uguali. C’è corrispondenza tra la resa stilistica e l’impulso conservativo che permea il racconto.
Mi chiedo: Verrà l’estate e Atti minimi di sopravvivenza possono essere letti come stazioni di uno sviluppo emotivo nella cronologia della vita? E le variabile di genere, e di età, quanto pesano?
Una trilogia di stagioni, primavera, estate, autunno, una triplice metafora è la cornice entro la quale s’inscrivono le due avventure poetiche. Verrà l’estate e Atti minimi di sopravvivenza sono separati dall’estate. L’amante di Verrà l’estate abita la primavera, guarda l’estate e sbircia da lontano l’autunno. L’amante di Atti minimi di sopravvivenza, invece, vive nell’autunno, si volge indietro all’estate, e intravede, nei frutti troppo maturi dell’estate i fiori della primavera.
La quarta stagione, che integrerebbe la triplice metafora rendendola quadruplice, è nell’ombra. Tuttavia, la quarta stagione è l’orizzonte ultimo sia di Verrà l’estate, sia di Atti minimi di sopravvivenza. Ed è singolare, ma non sorprendente, che sia evocata in maniera esplicita, in Verrà l’estate, là dove si agita, a intermittenza, un’euforia d’amore.
L’ossessione d’amore, che in Verrà l’estate assume i colori dell’euforia cangiante, e in Atti minimi di sopravvivenza quelli poco variati della disforia, penso che sia, in entrambi i casi, il sogno di un labirinto, nel quale gli amanti si aggirano senza il filo di Arianna. Stare nel labirinto, non guadagnare l’uscita, è molto probabile che sia, in entrambi i casi, l’esito con ostinazione cercato.
Massimo Grecuccio
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