Alla musa dell’amore impossibile
di Marcello Buttazzo –
Scrivevo per te, tanti anni fa, musa dell’amore impossibile, occhi verdi smeraldo, versi avviliti:
Ansimante notte
lascia il posto
alla fiammeggiante aurora.
È ora di svegliarsi,
il giorno non può attendere.
Presto uscirò per strada,
potrò contemplare in silenzio
la piazza del paese che si fa bella;
sconfitto
confiderò alla dolce brezza
la mia antica pena.
Dirò le mie parole al vento
perché desiderare un amore
è parlare al vento.
Sono passati gli anni, ho mutato il dolore, ho mutuato il pianto. Ancora oggi, però, esco per strada con l’anima in spalle. Ma ora l’aurora ha cambiato colore. La piazza del paese, al fiorire dell’aurora, m’aspetta ancora. Non c’è più l’albero del pepe, l’orologio municipale non batte più la stessa ora. Sono volati gli anni, l’ansietà di vivere è sempre la stessa, ma l’atteggiamento esistenziale è inedito. Non dirò mai più: “Desiderare un amore, è parlare al vento”. Innanzitutto, è sempre sangue vivido il desiderio, l’attesa di qualcosa che verrà. È rigoglio assoluto vezzeggiare qualcosa, è sempre significativo il percorso d’un intendimento. Ciò che conta, comunque, è desiderare un amore, l’amore che (come canta Roberto Vecchioni) “non finisce mai, si fa più piccolo che può”. L’amore, fosse anche solo quello sognato ad occhi aperti, è esso stesso ragione delle stelle, eterna scommessa, infinito mare di cui si sente il sempiterno, delicato murmure. L’amore spirituale e quello carnale. La lotta dei sensi e la ricorsa dei sentimenti. L’amore, gioia, ebbrezza. E l’amore caduta e delusione. L’amore salita vertiginosa e declino rovinoso. Amore, sempre amore. Davvero sono trasvolati gli anni, ma la musa dagli occhi di mare ha lasciato il passo, anni fa, ad una nuova aurora. Ad altre muse, bellissime come te. Ad una donna che veniva dal mare, in un’estate infuocata del 2009, dedicavo versi più serafici:
Sventolavi bandiere di pace
e arcobaleni d’armonie.
Svellevi
la mia improvvisa cupezza
e in onde sonore
mutavi la vita,
rosamaranto elegia.
Nel cielo capovolto
di giugno
una pioggia improvvisa
spruzzava i nostri corpi
e quando fummo soli
baci e colori
accesero i lampioni di paese.
M’estasiai
sul tuo gaio sorriso.
L’agile pioggia
ci sfiorava
e d’incendio colmava
il mio benigno tormento
d’amore.
Con lei uscivamo di notte per le vie del paese. La campana batteva ore fanciulle, nella piazza deserta. D’incanto, come un miracolo, arrivava l’aurora, che portava la voce d’un bimbo. Un’eco lontana di ninnenanne. Batteva la campana e, nella piazza, di prima mattina arrivava un suono: la voce di Federico, che dondolava su un’altalena di luna. Per la via, passava un gattino. Quante volte pensai, cara musa brindisina: è vivo, è vivo, il tenue sangue del tuo viso. Era sensuale e pullulante di vita il tuo seno acerbo di ridenti susine. E la tua voce che incantava i passanti per strada, ineffabile canto delle centomila sirene. La nostra terra, un Eden vagheggiato. Come era vivo il tuo corpo, il tuo viso. E poi ogni notte le vie popolate di gente. E in piazza, in ogni pietra, la tua orma, il tuo passo, il tuo respiro. Davvero “l’amore non finisce mai, si fa più piccolo che può”. Nessuna donna ha il potere di privarti dell’amore, neppure se lo volesse. L’amore alloga in ciascuno di noi. È la faccia più barbagliante del sole. Certo, ancora aspetto l’alba, ma con un animo più desto:
Aspetto l’alba.
Non sento più i rumori
della notte stridente.
Non sento più fracassi
e assordanti frastuoni.
Onde solo onde.
E una quiete
in quest’ora
che precede la carezza
del primo biancore.
Cosa è che placa
le grida dell’anima?
Una luce di primavera
che sorge nell’autunno che avanza.
Come fulgore,
come corsa a perdifiato
nel prato dell’adolescenza.
L’età che viene
Si scorda d’ogni malanno.
Trapassato dolore.
Aspetto l’alba.
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