La vita sofferta vuole amore
di Marcello Buttazzo – Quante volte traversammo i rossi selciati dell’incerta e alterna ventura coi ginocchi piagati, ma con lo sguardo attento e aguzzo. Quante volte sui cammini labili di ciò che è stato, abbiamo respirato intenso il travaglio, come uno squasso nell’anima dilacerata. L’esistenza delle corse sfrenate, delle rincorse ripetute, nella vana speranza d’afferrare le imprendibili e sdegnose chimere, nell’attesa esausta di ammansire le tralucenti utopie. La vita sofferta esige amore. Sempre. La vita sofferta vuole amore, un’ancora di salvataggio e un porto serafico di barche ammarrate. Giorni sereni e placidità di stelle. Talvolta, possiamo imbatterci nella malattia. Essa, sempre e comunque, pretende abnegazione e devozione. Fragilità di istanti e sentimenti da vezzeggiare, da coccolare, da nutrire. C’è chi, ogni giorno, fa i conti, ad esempio, con la pazzia, come disordine organico e come infausto “frutto” avvelenato di questa triste contemporaneità. Con il coraggio, l’esempio e l’insegnamento di Franco Basaglia s’è capito in questi anni che la persona “folle” è, per l’innanzi, un essere umano con vitali desideri e precipui progetti, con sacrosanti diritti da rivendicare, un soggetto da guidare lungo i crinali fruttuosi d’una esistenza completa. Fare cittadinanza, prendersi veramente cura d’un individuo “disagiato” e problematico, è la filosofia di base per un valido approccio medico partecipato. Basaglia ha sparpagliato semi d’amore, ha gettato i presupposti per una nuova e diversa comprensione della malattia mentale, che non può essere mai confinata al solo aspetto organicistico, ma deve oltrepassare con un salto i rigidi steccati dell’inappellabile tassonomia e dell’irreversibile definizione apodittica. È necessario più che mai usare uno sguardo olistico, d’assieme, e scavare archeologicamente e antropologicamente nel profondo del fondo del pozzo, fino a risalire alle scaturigini, ai primordi aurorali del malessere. Per un soggetto lacerato dagli scontenti e dai tormenti, è fondamentale e sorgivo integrare la malattia e trasformarla in qualcosa d’altro. Per tentare di guarire non si può mai stagnare nella propria sofferenza, si deve indagare con occhi tranquilli il proprio passato e quello degli altri (preminentemente delle persone care), come esploratore fiducioso si deve scendere negli anfratti più scuri della propria esistenza, senza aver mai paura delle sanguinolente ferite, senza mai temere di scoperchiare botole segrete. Si deve sentire l’acre schiaffo pungente dei venti sulla faccia e l’asprezza degli accadimenti remoti, la ruvidezza del giorno. Si devono frantumare gli inconcepibili sensi di colpa, si deve perdonare il proprio sé, si devono perdonare gli altri. Come meticolosi rabdomanti, si devono ricercare pazientemente le venule più chiare. Alda Merini, in una lirica de “La Terra Santa”, il suo capolavoro, scrive: “Anche la malattia ha un senso, una dismisura, un passo, anche la malattia è matrice di vita”. La malattia è come la poesia: vuole pazienza. Pazienza e alacrità dei vissuti, lentezza del tempo, per spezzare anche inconsistenti, insulsi e stigmi e obsoleti paradigmi, che la identificano per forza come un impedimento, una sciagura, un accidente. Pensiamo, solo per un attimo, ad Alda Merini, che cantava, tra l’altro: “Folle, folle, folle di amore per te”. Follia e malattia. “Alda è una macchina d’amore, che in lei è forza scaturente ininterrotta”, scriveva Roberto Vecchioni. Nei versi della poetessa dei Navigli, la “pazzia” è un fiume dirompente che va, un rigoglio, una linfa creativa, una carezza, un abbraccio. Bellezza e fascino.
Marcello Buttazzo
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