di Marcello Buttazzo – Ho letto con piacere un vecchio pensiero di Franca Ongaro Basaglia: “Pure ho visto anche cosa vuol dire e cosa produce per persone veramente sofferenti, essere parte d’un progetto, di una speranza comune di vita, coinvolti in una azione comune dove ti senti preso in un intreccio pratico, intellettuale, affettivo, in cui serietà e allegria si mescolano e i problemi tuoi si sciolgono o fanno parte anche dei problemi di altri con cui li condividi”. La società moderna iperveloce e ipergiudicante ci butta quotidianamente addosso venti d’indifferenza, tramontate d’insensibilità, talvolta ci fa stazionare nei solchi d’una perenne esclusione. Chi è stato provato dal male di vivere, dai dolori e dalle tribolazioni di varia provenienza, ha senz’altro un sistema di anticorpi idoneo per entrare empaticamente in contatto, mutuamente inclusivo, con l’altro. Chi ha navigato nei mari della cupa disperazione ha una spiccata umanità, delle corde gentili che giorno e notte possono suonare lo zufolo di Dio. Il dolore davvero, sovente, non è mai fine a se stesso. La desolazione, se si ha fortuna, può scuotere coscienze, tanto da far echeggiare alfine i virtuosismi dei centomila violini. Certo, il tempo attuale vagola e vagola, è una clessidra che ruba istanti ad una ordinarietà che esige però una ragione, una profondissima ragione d’essere. Si può viaggiare davvero allorquando in preda alle ansie, alle melanconie, alle depressioni, si ha la fortuna di incontrare la gente giusta. La gente che ti sa accogliere, come una mamma sana, non uterina, mai morbosa, mai mortifera; la gente arguta che ti sa dare le opportune dritte come un padre pervicacemente ancorato a questa terra, alla realtà e ai suoi saldi principi.  Per chi soffre e si duole intimamente d’una vita lacerocontusa, è di prioritaria importanza essere parte di un tutto, essere parte attiva d’una comunità di intenti, di idee, di uomini e di donne di buona volontà. Niente è più limitante e frustrante che non sentirsi considerati, non sentirsi parte in causa d’una collettività. Niente è più desolate del giudizio e del comportamento di chi ti esclude da un produttivo e accettabile contesto sociale. E per sentirsi vivo, soggetto pulsante, che crea e genera, non è fondamentale aderire ad una cultura marcatamente consumistica. È sufficiente per essere un uomo integrato in una plurale cornice poter, in qualche modo, attingere al giacimento inalienabile dei beni non consumistici, immateriali, come l’amore, l’amicizia, la solidarietà, la lealtà, la gratuità, il dono. Quei valori autenticamente puri, adamantini, non retorici, che sciolgono il gelo dell’anima e scalano le montagne della noncuranza. Mettere in comune desideri, passioni, sogni, attese, celesti chimere, rosee utopie, piccole gioie quotidiane, semplicissimi riscontri pratici, essere correlati in una tela intricata come fili laboriosi. Essere concatenati da una rete, anelli connessi d’una amorevole catena. Forse ingenuamente, ma coltivo un sogno come una immaginifica fantasticheria. Vorrei che la società contemporanea fosse non solo un villaggio globale rigidamente strutturato, determinato dalle ferree leggi dell’economia, ma una sorta di grande gruppo di mutuo auto aiuto a cielo aperto, dove ciascuno sia pronto a darsi disinteressatamente soccorso, a mettere in compartecipazione esperienze, gioie, dolori, parole e pensieri. Dove ciascuno sia pronto a spendere un sorriso di comprensione, con spontaneità d’animo. Cosa c’è di più umano che esprimere parte di sé e arricchirsi dell’altro da sé, con una visione aperta, morbida della realtà, sempre in nome d’una ricca progettualità?

Marcello Buttazzo