Alberto Paolini, “Avevo solo le mie tasche”
di Marcello Buttazzo –
Alcune tristissime storie umane hanno il greve sapore del dolore, il volto disfatto del travaglio estremo. Alberto Paolini, appena quindicenne, dal 1948 al 1990, è stato rinchiuso in manicomio al Santa Maria della Pietà di Roma, non perché malato, non perché paranoico o schizofrenico, ma perché povero e senza famiglia. A 5 anni, Alberto perde il padre; qualche anno dopo, muore anche la mamma. Rimane solo, passa in un orfanotrofio, subisce atti di bullismo dai suoi compagni. Lo ricoverano in Neuropsichiatria alla Sapienza. Ben presto finisce al manicomio romano di Santa Maria della Pietà, dove rimane 42 anni. Lo rapano a zero, gli fanno indossare uno sciatto camicione. Sulla cartella clinica scrivono superficialmente e genericamente “stato depressivo”. È una vicenda davvero crudele e inverosimile, densa di sofferenza e di palesi ingiustizie. Alberto, puro e innocente, patisce lunghissimi anni di ricovero. Nel corso della forzata degenza non gli viene risparmiato nulla, neppure i mortiferi elettroshock. Un inferno di fiamme ha dovuto superare Alberto, che è rimasto sempre lucido ed equilibrato, tra l’altro, grazie al conforto della scrittura. Fra le ferrigne mura del manicomio, comincia a redigere un diario intimo, contenente poesie e racconti. Ha pubblicato adesso, a 84 anni, la sua autobiografia “Avevo solo le mie tasche”, alludendo al fatto che nei desolati manicomi i degenti non avevano nulla, nemmeno un armadio. Avevano solo le tasche per poter conservare gli scritti, spesso vergati su carte, su scatole di grissini, su biglietti di fortuna. Una palese vicenda di malasanità. La narrazione lucida di Alberto esprime tutto lo scontento e la vergogna dei trattamenti subiti: “Il primario veniva in reparto una volta alla settimana. E tutti i rapporti li firmava in bianco e un paziente di fiducia scriveva quello che voleva”. Ora al dolce Alberto, che si trova in una casa famiglia, viene prospettato il passaggio in un ospizio. Ma lui giustamente ha paura. La scrittura ha salvato Alberto, è stata un’accogliente e nutriente terapia. La lettura e la scrittura, permettendo di meditare e di mediare i vissuti, consentendo di liberare le ali all’inconscio, a ciò che naviga nel sommerso, gettando uno sguardo sulle porte dell’inconosciuto, sono state davvero salvifiche panacee. Alda Merini, grande poetessa dei Navigli, che pure aveva una sindrome psichiatrica, ha dovuto traversare la Terra Santa del manicomio, abbeverandosi alla fonte della maestra poesia. Alberto Paolini, pur non avendo avuto mai alcuna malattia nervosa, ha dovuto affrontare tribolazioni incredibili, efferate, ingiustificabili.
Marcello Buttazzo
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