La breve storia incrociata di un rospetto e di un riccio
di Rocco Boccadamo – Quando faccio il narrastorie, è solitamente mio costume porre accanto, armonizzare e fondere insieme, come se riflessi in uno specchio multi dimensionale, natura, bellezze e fascino di luoghi, volti, immagini, storie e vicende, situazioni reali.
E, però, in qualche caso, pur mantenendo ferma la cornice di fedeltà, e rigorosa aderenza al vero, dei racconti che ne costruisco e traggo, ricorro anche a eccezionali innesti di fantasia.
Venendo all’intelaiatura della presente operazione scrittoria, è il caso di precisare che, di là del genere dei due protagonisti e dei rispettivi habitat ordinari e abituali, ovvero l’entroterra e le campagne, l’ambientazione della scena ha sede in una località di mare. Precisamente, in un giardinetto annesso a una costruzione urbana, comprensivo di una vaschetta rustica a uso irriguo, in un angolo della quale è casualmente scivolata, sovrapponendosi al fondo, una pietra: quest’ultima, a sua volta, a contatto con l’acqua, si è gradualmente rivestita del verde umido di una bassa erbetta che conferisce l’idea del muschio.
Nella risicata stagnazione d’acqua a ridosso e a tergo di detto masso, ha trovato casa l’anfibio del titolo, che, a tratti, se ne sta lì tranquillo e sonnacchioso, mentre, in altri momenti, non resiste a far capolino dalla superficie liquida e, ancora, a saltellare qua e là nel giardino, guardandosi in giro e osservando con accesa, invadente curiosità.
Fra i più cresciuti fili erbacei spuntati e sviluppatisi lungo un vicino muretto del giardino, alloggia, invece, il secondo protagonista indicato nell’intitolazione, ossia il riccio.
Attenzione, però, non bisogna lasciarsi influenzare dal particolare della prossimità del mare, non si tratta di un riccio, appunto, di mare, del genere di quelli di colore nero o violaceo attaccati ai fondali e sulle rocce e/o scogli, che, se inavvertitamente calpestati o toccati con le mani o le braccia o il corpo, possono pungere con le loro strutture spinose.
Quello della storia è, dunque, un riccio di terra, che proprio nulla ha a vedere con la distesa azzurra, nascendo, crescendo e nutrendosi di erbe, semi, insetti e piccoli frutti, sulle superfici asciutte.
La sua sagoma è naturalmente simpatica e ispira tenerezza, vuoi quando si pone in mostra con il suo musetto e il naso neri e gli occhietti vispi, vuoi quando prende a muoversi con una goffa andatura lenta anzi lentissima, vuoi, da ultimo, quando si chiude su sé stesso, dando luogo a una sfera di aculei.
Già, se l’omologo marino è dotato di spine, il riccio di terra è, per parte sua, ricoperto da pseudo spine o aculei; tuttavia, siffatta conformazione non incute paura, giacché l’animaletto non è uso attaccare o aggredire, anzi sembra un simbolo di pacifica bonomia.
Dà anche l’idea di essere una creatura saggia, equilibrata, mite e amante dell’armonia, un corredo di qualità che anche noi umani, forse, dovremmo prendere a modello e apprezzare.
Ritornando alla coppia di personaggi in narrativa, i due non hanno assolutamente alcunché in comune, salvo la lettera alfabetica iniziale del loro nome.
Il rospetto, al contrario del riccio, che, come accennato prima, gode di un appeal semplice e nel contempo gradevole, non possiede un bell’aspetto, la sua bocca e gli occhi sporgenti non suscitano attrazione, le sue chiazze di tonalità gialla e/o verdastra non danno luogo a una tavolozza bella a rimirarsi. Chiaramente solo all’interno della storia, i due animaletti detengono pure un appellativo, quasi fossero stati registrati all’anagrafe e battezzati: Pancino, quello del rospetto, Culeo, quello del riccio. Si rammenta la rana della famosa favola di Esopo, dove la si descriveva in confronto e contrapposta a un grosso mammifero, rispetto a lei gigantesco, il bue? Si ha memoria del triste epilogo che la rana, in quel caso, ebbe, scoppiando fragorosamente e auto distruggendosi per volere insanamente pretendere di raggiungere, a furia di gonfiarsi, l’enorme stazza, esattamente, del bue?
Ebbene, quella rana, di ceppo, non era altro che una cugina del rospetto dell’attuale racconto un po’ fantasioso. A conferma della giustezza del proverbio secondo cui la razza e la famigliarità non mentono né tradiscono, in questo frangente, la sorte finale che toccherà, quasi fosse predestinata, al rospetto Pancino, è all’incirca parimenti triste, sicuramente non trasuderà gloria.
Pancino, ogni volta che si fa vivo e se ne va in giro, pur senza paragoni con qualcuno o qualcosa, non fa che pontificare, soprattutto auto gratificarsi ed esaltarsi, gasarsi diremmo alla moderna, come lui non esiste alcuno, è il primo in tutto, dispone sempre a suo piacimento, si atteggia a re dei rospetti, capo dei capi, onnipresente, onnipotente e onnisciente.
L’umile riccio Culeo, trovandosi, lì, a immediato contatto, è costretto, ovviamente, a patire tutti i rosari di auto esaltazione e di immeritate proclamazioni del rospetto, nondimeno dispiega pazienza, convinto e fiducioso che, comunque, a lui, dotato di una solida corazza difensiva, non potrà derivare alcun danno o pericolo dall’insofferenza e dalla brama di esclusivo interprete del suo coinquilino in quell’angolo d’orto urbano.
Finché, un dì, in presenza di una vieppiù accentuata esibizione stucchevole del rospetto, non ce la fa a resistere e sopportare.
Così, quattamente, si accosta in direzione della tana dell’anfibio e, in un attimo, tendendo e appuntando i suoi aculei, scivola sino a posarglisi sull’adipe e, lì, forzando l’aderenza, provoca, al rospetto, un poker di forellini, sgonfiandolo e spegnendolo.
Non c’è che dire, probabilmente queste note potranno interessare e riuscire gradite solo ai bambini; a ogni modo, mi piacerebbe che, a scorrerle nella loro semplicità e, se si vuole, anche ingenuità, ci ponessimo noi stessi adulti, che, in determinati momenti, quanto ad equilibrio e rispetto degli altri, saggezza e tolleranza, scadiamo a livelli non consoni e finanche inaccettabili.
12 giugno 2017 – Rocco Boccadamo
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