di Fabio Grasso

La realtà attuale ci sta abituando sempre più a una concezione deforme di «rapidità», termine questo non estraneo al fare artistico. Quella di pensiero così come quella esecutiva, di fatto, possono essere alla base di un’opera senza, in genere, dover necessariamente apparire nella loro reale importanza. E forse è giusto sia così. In questo rapporto sfuggente si insinua, subdola, un altro tipo di rapidità, quella deforme e deformante del consumismo senza tregua e speranza, quella del fugace selfie che ci mette in una relazione forzata davanti ad un’opera d’arte come se quest’ultima non avesse un passato, una storia da raccontare ma solo un eterno presente.

Tomaso Montanari, in più serie televisive dedicate a diversi artisti (Caravaggio, Gian Lorenzo Bernini, Vermeer, etc.) si è, inoltre, spesso intrattenuto su quelle che potremmo definire le opere senza committente, quelle nate per “se stessi”, per l’autore medesimo. Ed è proprio in questi casi che si esprime quella nuda verità di cui sono fatte primariamente le opere e con esse gli artisti.

È in questa direzione dal doppio volto che si muove la breve analisi che seguirà. Essa è relativa a un polittico, recentemente restaurato (presentazione al pubblico il prossimo 16 ottobre 2020, ore 18, museo provinciale, Lecce), che la storiografia data alla seconda metà del Quattrocento e attribuisce ai fratelli Antonio (https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-vivarini/ consultato il 14 ottobre 2020) e Bartolomeo Vivarini (https://www.treccani.it/enciclopedia/bartolomeo-vivarini/ consultato il 14 ottobre 2020). La cultura pittorica è quella veneziana. La nostra attenzione in questa sede non sarà dedicata agli autori e soggetto (Madonna con il Bambino e Santi) ma a un singolare aspetto dell’opera, quello testuale. E di un’iscrizione in particolare. Nel verso della detta tavola (dimensioni cm.: 215 x 265) sono presenti non solo una serie di bozzetti (figg. 1-4), realizzati a carboncino (siamo in attesa di riscontri specifici di quelle analisi materiche che abbiamo suggerito nel novembre del 2019) ma anche un breve testo manoscritto (figg. 5 – 7).
Alcuni di quei disegni di studio, essenziali nel loro tratteggio (a carboncino?), raffigurano volti di personaggi simili a quelli presenti nel recto della medesima tavola. Questo aspetto figurativo e testuale, in filigrana verrebbe da premettere, racconta dell’opera una fase progettuale più intimamente legata all’autore, là dove cioè il pensiero formale aggredisce la realtà. Potrebbe essere stato, in più, proprio l’ideatore l’opera a lasciare quelle tre brevi righe di testo che, da un punto di vista paleografico, sembrano coerenti con la datazione del dipinto. Avere a disposizione un testo scritto dall’autore rende quest’ultimo più vicino, più umano, meno astratto di quanto appaia, invece, attraverso la realtà che egli costruisce pittoricamente sul recto dorato della medesima tavola. Tale presenza scrittoria obbliga, quindi, chi osserva all’inconsueta attività di guardare anche la parte posteriore della tavola; tutto questo è il mettere in controluce la realtà artistica facendo porre l’attenzione anche sulla parte più nascosta in genere (quella tettonica in questo caso) del supporto. E se proprio volessimo estendere la libertà dell’esperienza che può e deve competere all’osservatore, verrebbe da aggiungere: in quelle commessure di legni, nella tessitura degli irrigidimenti, nelle forme senza voce pittorica così restituite ancora di più all’architettura delle facciate veneziane, nella sottile varietà del colore ligneo, in tutto ciò e altro ancora si potrebbe scorgere anche quell’orizzonte evocativo caro a molti artisti moderni e contemporanei.
Nella pubblicazione nata per celebrare il restauro del polittico (B. MINERVA – a cura di -; L’oro, la santità e la gloria; Galatina; Editrice Salentina, 2020) a tale iscrizione, pur riconosciutane l’importanza, è stato forse dato non solo un non abbastanza adeguato risalto ma anche una trascrizione che riteniamo purtroppo di non poter accettare da un punto di vista scientifico.
A proposito di quel testo giuntoci da lontano, infatti, nell’accennato catalogo (p. 68) così si legge: «Lo smontaggio e la pulitura delle antiche tavole sul retro ha messo alla luce iscrizioni in grafite di incerto significato coeve alla tavola e che sembrerebbero annotazioni tecniche per la costruzione della carpenteria:

p(iedi?) 5 cuatro….
y 4 dicti (?)….
Tre qu(ar)tJ…..

Per completezza si segnala che le poche righe qui di sopra riportate, sono corredate da una nota, la 61, in cui la curatrice del catalogo e autrice del saggio specifico in cui quell’iscrizione è trascritta precisa: «Sono grata a Mario Cazzato per l’interpretazione di questa iscrizione e per le riflessioni sui polittici, avute nel corso del restauro».* * *
Prima di cominciare l’analisi paleografica di quel testo è opportuno segnalare che per decisione del direttore del museo provinciale Sigismondo Castromediano, Luigi De Luca, il cantiere è stato sempre accessibile al pubblico (compatibilmente con le limitazioni da COVID-19) durante il restauro dell’opera. Una bella iniziativa, questa dell’apertura inclusiva, che comincia, a vantaggio di chi si dedica allo studio storico, con lo scardinare inveterati e biasimevoli favoritismi i quali non garantiscono quella qualità della ricerca scientifica che è sempre un obbligo, tanto più quando i finanziamenti di restauri e pubblicazioni conseguenti sono di provenienza pubblica. Tale apertura, infatti, ha consentito a tutti di analizzare e fotografare il dipinto e, in particolare a chi qui scrive, di suggerire, al fine di comprendere meglio il contenuto delle parti manoscritte, la realizzazione d’indagini scientifiche in punti specifici dell’opera. Al momento non è stato, però, ancora consentito di consultare i risultati di tali analisi; quando anche questi dati diventeranno pubblici, sarà possibile verificare, completare, approfondire quest’analisi. Un aspetto da chiarire in tal senso, ad esempio, è il seguente: la curatrice del catalogo, nel suo intervento, riferisce che bozzetti e iscrizione, posti sul retro della tavola, sono stati realizzati con la «grafite» (B. MINERVA, Op. cit., p. 68). L’indagine de visu lascerebbe propendere, invece, in entrambi i casi (bozzetti e iscrizione) per l’uso del carboncino, tanto più in considerazione del fatto che quello della grafite, invece, risulta si sia diffuso a partire dalla fine secolo XVI°.

* * *
L’iscrizione(figg. 5 – 7)
Essa si articola in tre righe di testo. Alcune sue parti sono leggibili in modo meno chiaro di altre il che, nella trascrizione e in mancanza di un testo di riferimento più ampio e completo, lascia aperta la questione interpretativa in diversi punti. Per ragioni che spiegheremo subito di seguito, la trascrizione che proponiamo è la seguente:

p[arti] 5 cret[a]
p[arti] 4 [d]u[i] qu[inti]
tre qui(n)ti de p[.]

La parte numerica, più facilmente riconoscibile, si compone delle cifre: «5» (prima riga); «4» (seconda riga); «tre quinti» (terza riga) con, in quest’ultimo caso, la tradizionale abbreviatura (un segmento pressoché orizzontale sopra la «u») usata per indicare una nasale, in questo caso una «n».
Quanto appena descritto (numeri interi e frazionari) conduce verso l’ipotesi che il testo (forse un rapido appunto) sia quello di una ricetta. In particolare il numero frazionario «tre qui(n)ti» (ultimo rigo) lascia supporre che la parte finale del secondo rigo possa leggersi come «[d]u[i] qu[inti]».
Tale griglia interpretativa consente in più di esplicitare le «p» iniziali delle prime due righe come forma abbreviata del termine «parti».
Nella prima riga, il valore numerico «5» si accompagnerebbe con il termine «cret[a]»; quest’ultimo non appare preceduto da una preposizione, ciò lascerebbe pensare una volta di più che il testo possa essere, come già accennato, la rapida stesura di una ricetta.
Nella seconda riga, il valore numerico «4» non sembrerebbe seguito dalla specificazione del materiale; ciò andrebbe ancora nella direzione di un testo rapido e forse anche diuna ricercata reticenza. A meno non si sia in presenzadi tratti dovuti alla natura del legno, oppure prodotti di manomissioni anche involontarie, sembra di scorgere l’occhiello di una lettera “d”; il segno superiore, immediatamente a destra del presunto occhiello, potrebbe essere quello conclusivo dell’asta della medesima “d” la cui struttura costitutiva è più leggibile nella terza ed ultima riga (occhiello in basso e tratto verticale con andamento curvilineo che con continuità, procedendo verso destra, genera la lettera «e»).
Il ben leggibile termine frazionario della terza riga, con numeratore 3 e denominatore 5, aiuta a colmare molta dell’incertezza relativa alla parte finale della seconda riga e a leggere plausibilmente in quest’ultimo caso: due quinti. A proposito della terza riga è da segnalare un’incertezza interpretativa relativa all’ultima parte se, cioè, le tre lettere leggibili «d», «e», «p» siano da considerarsi unite o separate secondo, ad esempio, la soluzione «de» (preposizione semplice) accompagnata dalla «p» (minuscola come le altre due presenti nel medesimo testo; iniziale del nome indicante un materiale?) seguita a sua volta da una lettera della quale solo un breve tratto è visibile.
La ricetta prevedrebbe, quindi, 5 parti di creta, 4 parti di un materiale imprecisato ed infine, in termini assoluti, un ultimo ingrediente ottenuto miscelandone altri due secondo le frazioni 2/5 e 3/5; la somma di queste ultime è pari al valore 1. Quello che sembrerebbe essere il totale delle componenti è dato dalla seguente somma: 5+4+1=10.
Con tutte le cautele del caso (fra le diverse ipotesi possibili, qui si propone quella che sembra più di altre tenere in coerenza i dati fino ad oggi disponibili) riteniamo di ipotizzare che la ricetta possa riguardare lo strato preparatorio composto in genere da gesso («creta») cui l’autore riserva cinque parti; benché non specificato, le quattro parti potrebbero riguardare la colla usata come legante; la parte unitaria finale (ottenuta con due ingredienti dei quali, almeno il primo non appare specificato; per il secondo caso sono visibili solo tre lettere) potrebbe essere quella riguardante un pigmento usato per dare un colore più scuro allo strato preparatorio su cuipoi sarebbe stato realizzato il dipinto.
Da ultimo, non si può neanche escludere che le indicazioni materiche mancanti possano ricondursi a una ben precisa volontà, spesso presente nelle botteghe artistiche, di non svelare procedure esecutive e ricettari.

Fabio Grasso